Confini

                                       Edoardo Tresoldi, Pueblo, Siena, 2015

Confini …

Vicinanza o lontananza,

                            prossimità o divisione …

Limiti…

            Visibili?

                         Invisibili?

Percepiti, ignorati, violati, penetrati,

                                                                 rigidi o labili, mobili …                                       

                 o statici,

permeabili,

                                 invalicabili, imposti, scelti, larghi, stretti …

Barriera o contatto?

Ogni confine è un rapporto, anche quando si erigono muri, perché i confini sono il contorno della nostra forma, il rivestimento del nostro essere, che ci mette in contatto con “l’esterno”…

Sono una domanda, che inesorabile continua ad interpellarci, anche quando la ignoriamo.

Una domanda aperta sulla propria identità e sull’identità dell’altro, individuo o popolo,

straniero,

cioè esterno, appunto,

fuori dai nostri confini;

… Perché ognuno di noi ci sta dentro, vive dentro a confini mutevoli e vivi ed è in contatto con i confini altrettanto mutevoli e vivi dell’altro: la propria pelle, i propri pensieri, la propria casa, la propria città, la propria cerchia, i propri riferimenti, il proprio paese…

Ognuno di noi si è sentito accarezzato o schiaffeggiato, si è reso invalicabile ed ha sofferto di fronte all’invalicabilità altrui, si è fatto labile e si è lasciato violare, è stato costretto dentro confini non suoi, ha lui stesso violato per necessità o distrazione o prepotenza – altra faccia della necessità – è stato permeabile ed è stato penetrato, fecondato … ognuno di noi ha conosciuto la propria e l’altrui rigidità…

Ma spesso è difficile mettersi nei panni dell’altro…

Gli esterni confinanti, gli stranieri, ci provocano con la loro domanda su chi siamo, su cosa vogliamo e su cosa vogliamo diventare; il loro movimento verso o “contro” di noi è come quello di una matita, che ripassa le parti del nostro limite cieco, rivelando una forma fino a quel momento ignorata. Ed è qualcosa di reciproco. Possiamo osteggiare indifferenza, paura e imporre barriere, ma siamo in contatto e la matita si muove…

Edoardo Tresoldi, una delle Gabbie

Credo, però, che venga sempre il momento nella nostra storia personale o collettiva – avviene sempre, la storia insegna – per uscire dai cortocircuiti delle negazioni, fonte di tante sofferenze, fonte di guerre e discriminazioni. Viene sempre il momento o l’occasione, per imparare a fronteggiare l’attrazione e la repulsione, il disorientamento e il desiderio di fuga, lo spaesamento fino allo scandalo, il fascino o l’incanto che proviamo di fronte all’esterno, al diverso, allo straniero, all’altro, che, volenti o meno, traccia la parte invisibile del nostro contorno; credo che ci sia sempre l’opportunità per rendere i nostri confini, totalmente o in parte, permeabili e penetrabili, lasciandoci fecondare dall’altro nella disponibilità di una reciproca trasformazione.

Bansky, striscia di Gaza

Nell’impazienza che oggi ci caratterizza, nella dimensione del tutto e subito, la sfida più grande, forse, è il rispetto dei tempi – per lo più lunghi – nostri e altrui, necessari per riconoscere e riconoscersi.

Non possono esserci risposte immediate, ma solo una promessa di compimento, attraverso la costruzione intenzionale, lenta, continua e creativa, feconda e arresa di una storia che non è più “la mia” o “la tua”, ma “la nostra”, all’interno di confini permeabili e mobili.

Debora Corridori

 

 

Prologo ai re: un bambino che parla

La comparsa del linguaggio nel bambino segna il momento in cui la complessità della realtà esterna e quella dell’ altro si incontrano e creano immagini completamente nuove.
Un bambino che parla crea le sensazioni e i desideri mentre li esprime, affina i bisogni e li distingue via via dalle esigenze di crescita.
Un bambino che parla ha avuto modo di imparare l’ alternanza suono-silenzio e impara ad ascoltare, quindi a decentrarsi.
Un bambino che parla supera il narcisismo del lattante senso-motorio, che esplora con il corpo e con la bocca, fase importantissima ,ma che va superata attraverso la comparsa dell’ empatia: mi metto nei tuoi panni perché con le parole mi parli della tua storia di gioco, mi apri un varco verso la tua fantasia, mi poni un confine e mi esprimi un dolore.
Un bambino che parla non usa più la struttura ripetitiva del sottrarre il giocattolo o del gioco esplorativo solitario: gioca con l’ altro a “fare finta” e un ramoscello diventa un telefono in cui le parole diventano una musica verso un uditorio che non si vede.
I bambini che parlano sono irrimediabilmente tutti diversi e sfidano gli adulti a rapportarsi con queste complesse differenze, a creare loro dei contenitori ricchi di stimoli, ma anche di confini, dove le identità si sviluppino ma non si confondano, per costruirsi adulti creativi, permeabili e non rigidi, che sapranno sempre che fuori da sé non c’è niente di uguale a noi, ma sempre somigliante.

Il re che non voleva sentir piangere (il regno silenzioso di senzalacrime)

C’era una volta un castello in un giardino immenso e perfetto che stava in mezzo al Regno Silenzioso di Senzalacrime.
Le siepi e i vialetti del giardino del re erano così curati, che ogni sassolino se ne stava al suo posto grazie al continuo intervento dei giardinieri reali.
In quel regno la Compagnia dei Giardinieri era importantissima.
Se ne poteva far parte a condizione di non piangere mai, a condizione di non versare mai una lacrima: anche solo un cenno di pianto poteva costare l’espulsione immediata dalla Compagnia e dal Regno Silenzioso di Senzalacrime. In quel regno, infatti, era stato bandito il pianto, era stata ridotta al silenzio la sofferenza e la commozione, si poteva star male, ma senza un lamento.
Nel regno sovrastava il silenzio: ogni dignitario, ogni abitante, ogni bambino o donna che fosse, doveva controllare e controllarsi fino al punto di non mostrare quasi niente attraverso il volto. Sguardi duri e sfuggenti che si incontravano ormai poco e solo per dovere; i saluti erano rari; i bambini non nascevano più, perché tra i giovani non usava più scambiarsi sorrisi e sguardi. Perfino i cuochi e le cuoche avevano cambiato le loro ricette, per non tagliare le cipolle!
Tutti sembravano uguali, grigi e ingobbiti, uomini, donne, vecchi e i pochi bambini rimasti.
I mastri giardinieri giravano ormai per il Regno Silenzioso di Senzalacrime con lo scopo di verificare che il silenzio e l’ordine regnassero, per riferirlo al Re.
Il Re… il Re Che Non Voleva Sentir Piangere era un uomo alto e magro e le rughe cominciavano a ricoprire il suo volto asciutto con occhi così penetranti, che se lo guardavi … ti veniva da piangere.
Chissà perché si era indurito a tal punto? Ormai la domanda si era persa nel tempo e ogni suddito pensava che non fosse conveniente cercare di dare una risposta, perciò si preoccupava solo di non disturbarlo.

A-Cuir era uno dei giardinieri fra gli ultimi nella gerarchia della celebre ed importantissima Compagnia dei Giardinieri, ma, nonostante ciò, gli era permesso di avere contatti con l’esterno del Regno Silenzioso di Senzalacrime, per il rifornimento di fiori, una volta all’anno. Fuori non doveva parlare e doveva portare in testa una cappa gialla; avrebbe mostrato la lista dei fiori al capo-serra, che conosceva da sempre, e quello gli avrebbe riempito di fiori il carro.
Una di quelle volte, il capo-serra era ammalato e fu la figlia Rosa a servire A-Cuir: al solo sentir la sua voce soave, se ne innamorò.
La loro storia andò avanti in gran segreto e in segreto si sposarono.
A-Cuir portò la ragazza con sé nella sua casupola da ultimo giardiniere, ai confini del regno.
Da lì ad avere una bambina il passo fu breve; si può capire, però, che in un regno dove sia proibito piangere, crescere un bambino sia pressoché impossibile, così A-Cuir cercò di  isolare la casetta con cortecce di querce sughere, mentre la mamma osservava continuamente le smorfie di Allegra, la neonata, per distrarla dal pianto.
Un giorno come tanti, la moglie di A-Cuir si era addormentata, per via di una notte insonne dedita a controllare la bambina e, mentre lui lavorava alle siepi centrali dove erano cadute molte foglie, la bambina cominciò a piangere …
In quell’indisturbato, immobile, solenne silenzio, il leggero vagito parve una lama, che riuscì a penetrare l’aria fino alle orecchie reali, così sensibili, abituate ormai solo al leggero fruscio delle foglie e al lento scorrere dei ruscelli là intorno.
–         Guardie! Giardinieri reali! Correte! Prendete e portate qui l’ingrato che si permette di offendere quest’oasi di pace! –
Gli uccellini, a cui per tanti anni era stato impedito di nidificare, e le api, che non lavoravano il miele in quel regno silenzioso, si spostarono a frotte dietro ai giardinieri,  per curiosare un po’. Anche A-Cuir aveva sentito il vagito e si era messo a correre come un pazzo, nell’estremo tentativo di salvare la sua bambina, ma i giardinieri erano già lì quando lui arrivò, schierati e immobili di fronte alla piccola e alla madre, che tutto quel trambusto non era riuscita a svegliare.
A-Cuir era sul punto di afferrare una delle guardie per il collo, quando la piccola smise di piangere. Guardò attentamente ad una ad una quelle strane facce, quegli strani figuri inespressivi e grigi in fila davanti a lei. Forse le sembrarono pupazzi, forse le parvero ridicoli, non si può mai sapere cosa passa per la testa di un bambino; fatto sta che cominciò a ridere, con una risatina grassa e fitta, interrotta a tratti da qualche attimo di silenzio, in cui con gli occhi lacrimosi e vivi passava di nuovo in rassegna quelle figure, che a lei sembravano così buffe. Rideva, rideva con le lacrime ed occhi luccicanti, rideva di un riso contagioso, contagiosissimo …
Inizialmente tutti rimasero attoniti: il babbo, che si fermò, bloccato con le mani aperte, per afferrare il collo di una guardia, la mamma che si era svegliata atterrita e le guardie, sulle cui facce inespressive spuntò un’insolita aria di sorpresa.
Fu allora che uno dei giardinieri presenti incrociò per sbaglio lo sguardo di una guardia e … sbruffò in una risata fragorosa e sgangherata.
A lui ne seguì un altro e un altro ancora: ridevano e mentre ridevano cominciarono anche a piangere tutte le lacrime che non avevano pianto.
Alcune guardie, quelle rimaste serie, si precipitarono sulle altre arrabbiatissime: che avrebbe detto e fatto il Re quando lo avesse saputo? Ma quelli se la diedero a gambe. A-Cuir, Rosa con la figlia Allegra tra le braccia, si strinsero in un abbraccio, mentre cercavano di scorgere tra le cortecce di quercia, ciò che stava succedendo, ma non riuscendo a vedere bene, A-Cuir uscì e liberò la finestra della sua casupola da ultimo giardiniere, ai confini del regno, per godersi lo spettacolo.
Le guardie e i giardinieri in fuga, correvano per il giardino reale spargendo ovunque le loro lacrime, le guardie, quelle serie, le inseguivano, ma ogni tanto se ne perdeva una, che si metteva a ridere o a piangere o a ridere e a piangere insieme.
Intanto gli uccellini contenti cinguettavano sonoramente e avevano iniziato a fare il nido, in questo inaspettato vento nuovo e anche le api già ronzavano intorno ai fiori.
Il Re Che Non Voleva Sentir Piangere, pietrificato guardava dalla finestra più alta del suo castello quel deplorevole spettacolo, quando preso da una rabbia incontenibile, decise di armarsi a dovere e andare in giardino, per prendere in mano la situazione.

Uscì dal castello a cavallo, con l’armatura, la spada e la lancia. Ormai non c’era più un giardiniere o una guardia che non piangesse o ridesse fino alle lacrime. Il Re si lanciò come un fulmine contro i sudditi disobbedienti, che al vederlo così iracondo e armato, cominciarono a correre, tutti nella stessa direzione, verso il cancello del regno, che qualcuno nel frattempo aveva aperto. Il Re, senza accorgersene, sempre correndo, cieco di rabbia, varcò il confine. Tutti rientrarono in se stessi quando videro il destriero allontanarsi. Si guardarono e si sentirono sollevati, liberati e felici. Da allora nel Fu Regno Silenzioso di Senzalacrime tutti si sentirono liberi di piangere quando stavano male e di ridere quando erano felici, di stare zitti o di parlare, di gridare e di cantare. Dove erano state sparse le prime nuove lacrime del Fu Regno Silenzioso di Senzalacrime, cominciarono a spuntare spontaneamente fiori meravigliosi e non fu più necessario acquistarne altrove, per colorare il giardino intorno al castello. Da allora il cancello del Fu Regno Silenzioso di Senzalacrime rimase aperto.
E il Re? Il Re corse ancora e ancora e ancora intorno al mondo, convinto di poter soffocare con la forza il pianto e col pianto il riso e tutto ciò che sta nel mezzo. Ma alla fine dell’ennesimo giro si fermò e scoppiò in un pianto a dirotto, talmente accorato, che fece piangere anche il cavallo. Le sue lacrime inondarono la valle e formarono un lago, visibile all’alba e al tramonto dalla più alta finestra del castello del Fu Regno Silenzioso di Senzalacrime.

Un altro re

C’ era una volta il suddito di un sovrano potente.
Il suddito temeva ed amava il re: personalmente forse sarebbe stato piccolo ed insignificante, ma essere suddito del re lo faceva sentire sicuro e rispettabile quando incontrava gli stranieri che dalle terre oltre il confine, ogni tanto si spingevano in città.
Il sovrano potente rappresentava per i suoi sudditi il sogno che tutti avrebbero potuto godere delle sue immense ricchezze, se solo avessero seguito i suoi illuminati voleri e, forse, diventare un giorno come lui.
Sfortunatamente il regno si indebolì e i nemici, gli stranieri, attaccando, infiltrandosi, smembrarono il paese.
Il vecchio re morì con il suo regno.
I sudditi, sentendosi persi, spaventati, senza più quel sogno di ricchezza e di stupido benessere infinito, divennero ciechi di rabbia: rabbia verso il re perché se n’ era andato a tradimento lasciandoli soli, con tutti quegli stranieri in giro.
Gli stranieri entrando nel regno rimasero stupefatti nel vedere che gli abitanti avevano preso a errare solitari battendosi il petto e accusandosi dei più gravi crimini.
Ed in effetti come potevano capire che ogni suddito in verità stava picchiando il re che aveva in sé?
Uomini e donne a cui l’identificazione con il padre conferisce presunta protezione contro il mondo dell’ irrazionale.
Una falsa identità contro gli stranieri al di là del fiume.
Corazza caratteriale contenente il caos interno: maschera autorevole che copre un volto sfigurato.
La chiamarono “depressione” e i veri volti neri non erano quelli degli stranieri, ma quelli dei non più sudditi, non più uomini, non più donne che avevano reso brutti come dopo un incendio i propri paesaggi interni, bruciati dal fuoco della rabbia contro il re che aveva infranto il loro stupido sogno di benessere stolido e infinito.

Una ricerca tra arte e scienza: parole, immagini, suoni, psicoterapia.

L’ elaborazione artistica ci consente di avvicinare le persone senza passare attraverso l’ elemento teorico dichiarato e esplicitato in una maniera fredda e concettuale. Ha un potere di penetrazione maggiore, per la sua capacità espressiva più ampia, per una trasformazione che è già avvenuta a monte.
Una rappresentazione teatrale non è terapeutica, esprime, semmai qualcosa che deve essere già avvenuta. Una trasformazione che racconta come la fantasia può nascere, in modo casuale, non premeditato, nel cuore dei rapporti umani.
Questa nascita, affidata soltanto alle parole, apparentemente è fragile, ma se viene raccontata e accolta, se si trasforma in suoni, in immagini che attraverso la recitazione si propagano con un’ eco potente, allora non è più possibile negarla né per noi stessi, né per gli altri.
La bellezza non è consolazione, la poesia non è rifugio per anime inquiete e tormentate. L’ arte sconvolge, contraddice il buon senso, il senso comune: forse, nella nostra vita, per riuscire a creare qualcosa di bello bisogna saper scegliere, intuire quali persone, al di là di ciò che viene dichiarato, ci vogliono veramente bene.
C’ è una durezza negli affetti che è ricerca di autenticità: spesso ci costringe al rifiuto, alla solitudine, ad andare oltre ciò che è immediato per inseguire sogni che solo dopo molto tempo possono diventare fisionomia, colori e forme di vita concreta. Potremmo, con grande sorpresa, scoprire che quanto siamo abituati a collocare in un tempo che è sempre domani ed in un luogo che è sempre altrove, ci appare all’ improvviso davanti come una visione all’ inizio nebulosa che da qualche parte pensavamo di avere nascosto ma che invece solo ora cominciamo a delineare: essa è di fronte a noi, si rivela ai nostri occhi con contorni sempre più definiti che sicuramente non parlano solo di una nascita, sfidandoci ad un gesto di coraggio, a tendere una mano per raggiungerla.
Cerchiamo allora il ritmo, l’accordo, la sonorità del desiderio che nasce da un rapporto vero, reale, mentre le musiche, i gesti che accompagnano le parole degli attori evocano atmosfere di sogno, fantasie che sono raccontate da quegli uomini, da quelle donne che non hanno voluto ancora smettere di avere fiducia e di sperare.
A volte si rifiuta senza sapere perché il ruolo dell’ eroe perdente, mentre intorno crolla un mondo di sentimenti troppo conosciuti. Qualcuno ha lasciato una ferita aperta da risanare. Fingeva di seguire un sogno ma forse fuggiva solo da chi non capiva.
“Volevo l’ identità e l’ altro me la cancellava negandola anche a se stesso. Buttava la vita affidandosi ad una frode.”
E’ apparso un demone, allora, inventato dalla mente, portatore di sventure e malattia. Da sempre gli uomini gli hanno lasciato una funesta libertà non sapendo che era un parto della loro sofferenza.
Per un attimo poi il demone nasce nella mente di una donna: ma non la può schiacciare, sotto i paludamenti della metafisica, del peccato, della colpa, sotto l’astrazione di un pensiero che non ha nulla di umano. Quando sembra che abbia spezzato col terrore della morte la sua mente, accade quel prodigio che nessun dio, ma solo un uomo, solo una donna, avrebbe potuto compiere.
E lei scompone la sua esistenza che si dissolve in un sogno luminoso di meteore, sprofondando in abissi inconsapevoli, ne riemerge come rinnovata. Non più come pietra spugnosa e senza vita, non più parte di metallo o lamina di corazza, ma cuore palpitante, pelle sensibile alle carezze, occhi che si infiammano di desiderio.
E’ la nascita dell’ uomo, fascino della vitalità che si ripete sulla terra, granello di polvere nell’ universo.

Russia

Prologo – A stomaco vuoto il primo bicchiere di rosso arriva veloce e pesante. “Vedi Piero, noi altri giù in miniera si picchia giù duro, perché se non picchi forte il carbone non si stacca, hai voglia a dire. Ci devi credere nelle picconate, sennò fai fatica uguale e il carbone rimane li. Allora picchi, picchi ad occhi chiusi, tanto laggiù è buio pesto, si vede poco o nulla”. Mi guarda fisso, in silenzio. Aspetta un cenno di vita, perché senza vita il racconto non va avanti. “Sì nonno, ad occhi chiusi, ho capito”, mi affretto a rispondere. “Si sentono bene i respiri, però”, ricomincia veloce. Perché vedi, c’è silenzio in fondo alla miniera, e il fiato, un po’ per la polvere, un po’ per la fatica, è rumoroso. Sembra che si fa l’amore la sotto, tutti insieme con la terra. Io mentre spiccono, per esempio, penso a fuori, a sopra, penso alla luce. Penso alle farfalle, leggere, che galleggiano nell’aria”. “Si, una farfalla”, commento, e mentre lo faccio, agito le braccia come fossero ali. “Bravo Pierino, quando sono la sotto che scavo, se vedi una farfalla, puoi immaginare che lì vicino ci sono io”. Sorride. Col secondo bicchiere indossa gli scarponi da lavoro. Il rosso è l’anticamera della miniera; il prima, il durante e il poi. La fatica non c’è solo col piccone in mano, c’è prima, per la paura, che quasi ti pisci addosso a scendere in quel budello, poi, giù in fondo, quando sei nel buco del culo, tanto, si piscia in piedi, che poi, si mescola al sudore e riempie le scarpe; durante, sennò la forza proprio non c’è; dopo, il rosso, serve a pulirti dentro, perché la pulizia, per i minatori, non inizia mai dalla pelle, che se ne dica. “Ora vai in casa da nonna e fatti dare la panierina di latta, al Camorra sono arrivati i topi, sennò si mangiano tutto loro”. “Vado”. “Ciao Piero”. “Ciao nonno”.
Il gioco – Per noi ragazzetti che si abitava nei dintorni di Ribolla, le giornate, d’estate, erano fatte di gioco. Gioco semplice perlopiù: corse dietro al pallone, arrampicate sugli alberi e dispetti. Sovente costruivamo dei carretti sterzanti, ai quali si applicavano i cuscinetti d’acciaio di vecchie pulegge, al posto delle solite ruote di gomma delle carriole, cosi si filava più veloci e precisi. Con questi si gareggiava sull’Aurelia. Si scendeva giù, dal poggio della Collacchia, partendo dal bivio per Tatti, rischiando spesso di scontrarci con le auto e i motorini. Altre volte invece si faceva a botte, ci si prendeva a sputi, sassate e si facevano vere e proprie battute di caccia alle lucertole e alle rane nei fossi. In poche parole, quando si giocava, non si guardava in faccia a niente e a nessuno; si spianava tutto: alberi, finestre, animali, giù colpi fino a che ci si faceva. A fine giornata c’era la conta dei danni e le punizioni delle mamme, che purtroppo per noi, nelle famiglie dei minatori, non era mai una passata di rosario, ma, più spesso, ceffoni sonanti e cinghiate. Nella nostra casa, l’ordine di quello che, con molto ottimismo, chiamavamo giardino, una breve spianata con qualche alberello sparso qua e la alla rinfusa e molto ghiaino (abbondante e a buon prezzo, all’epoca, per via della vicina cava della Bartolina) nel quale quasi si affondava con le scarpe, era messo a dura prova dalle nostre sfide a pallone. Si andava avanti fino a che il fiato reggeva, poi, sfiniti, ci si sdraiava su un campo di grano o per terra, sotto un olivo, dove puntualmente si prendevano le zecche in testa. Anche di sera era uguale, si giocava a nascondino col favore del buio. L’ultima sfida però, anche di notte, era a pallone. Si mirava con particolare accanimento ad una pianticella di alloro del nostro giardino che non crebbe mai, poverina, faceva sovente da palo sinistro; il palo destro, invece, era un giovane leccio, unico sopravvissuto alle nostre scorribande. Ancora oggi è la, gigantesco. Le pallonate ormai gli fanno solo il solletico. Appena calava il buio, subito dopo cena, i grandi cominciavano i loro tornei di brisca. C’era magia nel loro modo di scrutarsi mentre giocavano. Noi piccoli ci si metteva attorno al tavolo ancora col fiatone e si guardava, con ammirazione, l’arte di questi giocatori. Inizialmente erano infastiditi dal nostro ansimare e dai rimasugli di vocio che ci portavamo appresso, poi, poco a poco, quando il nostro respiro si calmava, tornavano a immergersi nel loro mondo, ignorandoci completamente. Silenziosi, facevano roteare gli occhi per spiare gli accenni degli avversari o per riceverne dal proprio compagno, curandosi di non essere visti. Le carte ben strette in pugno; anche loro che tenevano in mano le proprie, le sbirciavano di soppiatto, come per mettersi al sicuro da se stessi. Vivevamo tutti insieme, nonni, zii, cognati, cugini, fratelli e sorelle; cinque famiglie in tre generazioni, sparpagliati sui due piani di una casa che era diventata, col passar del tempo, una specie di comune.
La partita memorabile, luglio 1951 – Una sera, verso la fine di luglio, venne in visita a casa nostra lo zio Parise, aveva ancora addosso gli abiti sporchi di calcina. Veniva raramente li da noi a Casteani, dove, peraltro, aveva abitato fino a qualche anno prima. Si era trasferito a Ribolla con la famiglia. Lì costruì la sua casa a forza di domeniche, come amava sottolineare, per esaltare la sua caparbietà nell’ottenere ciò che desiderava. Era sempre a lavorare. In paese, una volta, sentii dire che l’avevano visto tirar su tramezzi anche dopo mezzanotte; teneva accesi i fari del camioncino puntati sul muro che stava tirando su, sempre con la sua sigaretta accesa in bocca. Era chiaro che quando veniva da noi a Casteani, non era per parlare di lavoro. Voleva giocare a brisca, noi tutti lo sapevamo. Questa cosa ci faceva sorridere, come anche quel suo modo sempre imbronciato e sigarettato che aveva di presentarsi. Si sedeva sempre al solito posto e aspettava, in silenzio, un bicchiere di vino. Quella sera scese dal camioncino che eravamo ancora tutti a tavola. Non si preoccupava molto delle formalità, nessuno lo faceva all’epoca, a dire il vero. Il nonno e mio babbo cominciarono a sparecchiare la tavola mentre ancora si stava masticando l’ultimo boccone e prima ancora che lo zio, sceso dal camioncino, avesse richiuso lo sportello. Disse, tracannando gli ultimi sorsi di vino rimasti nel suo bicchiere, “via, andersen donne, ora si gioca a brisca, e non rompete i coglioni”, mentre continuava ad ammontinare i piatti sporchi sul tavolincino accanto all’ingresso di casa. C’era la stessa voglia di due giovani amanti che si strappano i vestiti di dosso prima dell’amore. Le donne, intuendo questa passione, erano rosse di gelosia e di rabbia, anche perché questo raddoppiava loro il lavoro, oltre a rovinare la cena che avevano preparato tutte insieme. Ma tutte le proteste furono inutili, anzi, poco non ci mancò che il nonno alla fine non prendesse la tovaglia per i quattro angoli e, sollevandola, ne gettasse tutto il contenuto nel giardino davanti casa. Fu cosi che cominciò la partita più bella e combattuta di quell’estate. Tutta la famiglia era riunita grazie a quella partita, forse fu questo che la rese memorabile. Era il luglio del 1951, i minatori di Ribolla, compresi il nonno, mio padre Benito e lo zio Vittorio, erano al quinto mese di sciopero. C’era tanta fame e molto nervosismo.
I giocatori – Mio padre Benito, soprannominato “il professore”, un vero esteta della brisca e primo allievo, per bravura, di mio nonno (un autentico figlio d’arte se non c’era lui la partita non era veramente interessante ) zio Ivo in arte il ruspista; zio Parise l’anarchico; zio Vittorio detto “pelo”; Ermanno “il socialista”; infine nonno Fortunato il “Russia”, cosi chiamato perché era un comunista di quelli tosti; ce l’aveva a morte con i preti ed era uno dei più grandi bestemmiatori che avessi mai conosciuto. Questi erano i giocatori della sfida che si stava preparando. Era l’unico rito che quegli uomini senza chiesa osservavano, forse l’unica forma di spiritualità che conoscevano, guai a violare anche una soltanto delle regole sacre della brisca. Si partiva sempre con la carta più alta per stabilire chi doveva dare le carte. Le coppie erano quelle ormai consolidate da anni di gioco, molto più di un matrimonio con prole, giusto con qualche frivola scappatella, ogni tanto, nelle gare delle feste dell’unità e nelle sagre paesane. Russia col professore, pelo col socialista (coppia estremamente riflessiva) e il ruspista con Parise l’anarchico, soprannominato anche il mancino, perché murava con la sinistra, con in bocca l’immancabile sigaretta sempre accesa e nella destra il paramano.
La stella più luminosa – Quella sera, il nonno perse la prima partita quasi subito. Entrò, per la seconda partita, la coppia formata da Pelo e il socialista. Io ero seduto giusto dietro ai giocatori, guardavo la partita, cosi mentre scansò la sedia per alzarsi, il nonno, mi dette due pacche sulle spalle e disse, “vieni Piero, si va sulla proda a prende il fresco”. Fino alle nove e nei periodi centrali della stagione estiva, anche fino alle dieci, passavano gli “arfisi”, così li chiamavamo noi, gli aretini, fiorentini e senesi, AR-FI-SI – dalle targhe, appunto – che rientravano a casa, con i loro carichi di sole sulla pelle, dopo una giornata di mare. Ci si metteva sul ciglio della strada e ci facevamo sventagliare tutte le sere dalle macchine e dai vespini che passavano. Si stava col culo bello piantato sulla scarpata, al di la dalla strada, e con le gambe a penzoloni nel vuoto, si guardava la notte. Mio nonno conosceva tutti i nomi delle stelle. Mi teneva il braccio sulle spalle, poi metteva il viso vicino al mio, per avvicinare più che poteva il punto di osservazione e, messo così, puntava in alto il dito verso una stella, anche se io, non capivo mai quale indicasse di preciso. A volte era così brillo che la mano non era ferma come avrebbe dovuto, quindi capitava che si faceva un po’ di confusione coi nomi e si finiva spesso per discutere, anche animatamente, se la stella a sinistra, appena sotto la luna, fosse la stella Marx”, oppure la stella “Lenin”. La politica si imparava anche così allora, guardando il cielo.
La bicicletta – Una volta arrivati, noialtri ragazzetti, dopo esserci arrampicati con le biciclette su per una salita che toglieva il fiato e che, quasi mai, riuscivamo a percorrere senza scendere dal sellino, ci si metteva seduti sul punto più alto di una collinetta, piuttosto appuntita, che stava proprio dietro casa mia. Si stava li, in silenzio, per alcuni minuti, come piccoli indiani in attesa dell’attacco alla diligenza. Studiavamo quello che sarebbe diventato, di li a poco, il percorso di un gioco piuttosto pericoloso che si faceva spesso: si trattava di scendere giù dalla collina con le bici, a tutta velocità, e centrare un ponticino, molto stretto, che permetteva l’attraversamento di un fosso profondo un paio di metri, proprio ai piedi della collina. Ogni volta si scendeva giù uno dietro l’altro a distanza molto ravvicinata, si gridava come dei pazzi, interrompendo improvvisamente il silenzio che ci eravamo imposti fino ad allora, rischiando di franarci addosso l’un con l’altro. Subito al di la del ponte c’era la vigna dei vicini, quindi bisognava stare attenti anche a non andare a sbattere contro qualche colonna del vigneto, una volta centrato il ponticino. Questa prova di coraggio era una sorta di “rompete le righe”. Dopo ognuno se ne andava per conto suo. Appena salutati i miei amici, io me ne andavo sempre sull’Aurelia. Spesso mi dirigevo verso Ribolla con molta calma, annusando l’odore della campagna. Appena finita la salita della Collacchia percorrevo senza mani tutta la discesa che portava fino all’ingresso del paese, senza pedalare, sfruttando solo la velocità che avevo acquistato. Presi l’abitudine di fare un segno sull’asfalto con un gessetto nel punto in cui, finita la spinta, ero costretto a mettere giù i piedi, cercando di superarlo ogni volta. Ma nell’altra direzione non andavo oltre la casa dei vicini. Accanto a noi abitava Fine, la maga. Tutti noi, ragazzetti della zona, avevamo sempre un certo timore nei suoi confronti; dicevano che la sua magia fosse molto potente. Leggeva i fondi del caffè, prediceva il futuro, toglieva le fatture e altre cose del genere. Sta di fatto che io non riuscivo mai ad andare oltre casa sua. Il territorio al di là della sua traversa, cento metri appena da casa mia, era sconosciuto per me, quando uscivo da solo con la mia bicicletta. Non che facesse nulla di spaventoso, si metteva semplicemente davanti casa e, seduta sugli scalini, mi fissava, immobile. Sembrava una statua di cera. Mi fermavo, la scrutavo con aria di sfida, ma lei non batteva ciglio. Ogni volta, giravo la bici e tornavo indietro.
L’inverno prima dello sciopero – Se l’estate era leggera e giocosamente calda, l’inverno in maremma era umido e puzzava di fumo che usciva dai caminetti che non tiravano, e dai tubi di scarico delle cucine economiche che non erano ben collegati tra di loro. Si passavano le serate dai parenti, che erano piuttosto numerosi. Avevamo preso l’abitudine, appena dopo cena, di fare una visita a nonni, cognati e cugini, in modo accurato e rigoroso, sia nel tragitto che nei tempi. Durante le veglie, l’occupazione più gettonata era sempre il gioco delle carte. I grandi si prendevano sempre la scena, noi altri, i figli, si guardava come al solito. Mio nonno era l’unico che si perdeva un po’ con me. “Allora Piero, tre carte ogni giocatore, e questo lo sai. Poi si decide qual’è il seme che comanda. Fai conto che quello è il padrone. Uno, due e tre, è semplice. Adesso immagina che c’hai in mano un carico, una scartina e il re di brisca. Tocca a te, che giocheresti?”. “Boh, la scartina”, rispondo. “Bravo Piero, tieni in banca il gruzzoletto, faresti felice la tu mamma. Poi tra un po’ un bell’ammazzo, eh?”. “Grazie nonno”, rispondo, non cogliendo il sarcasmo nelle sue parole. “Ma che grazie, bischero, bada che ti do uno scapellotto. E l’azzardo? Sei appena nato e già cosi fifone. Toh vai, butta un carico, dai!”. ”Toh, vai”, esclamo, buttando la carta. “E io c’ammazzo! Non seguire i consigli, usa la tua testa. Comunque, mai un carico femmina sotto 4 mani. Ascolta tutti ma fai come ti pare, Pierino. Dai, adesso rientro a giocare, domani però, se ti va, ti porto con me al capannone della miniera, ci sono quelli del sindacato, è bene che tu cominci a capì com’è il lavoro nella miniera, e a conosce ‘ste merde della Montecatini”, disse. Annuii.
Le riunioni col sindacato – Sapevo gia quale era il fabbricato che i minatori usavano per le riunioni sindacali. Però noi entrammo dall’ingresso posteriore, e per arrivarci facemmo un giro molto più lungo. Col motorino, si passò davanti al podere delle Venelle, poi percorremmo un lungo sterrato che costeggiava il torrente. Più avanti si guadò il Follonica in un punto che conoscevo bene, per via delle scorribande che noi ragazzetti ci facevamo ogni estate per catturare i pesci che rimanevano intrappolati nelle pozze del torrente in secca. Eravamo armati di retini e fiocine artigianali che costruivamo con le canne di bambù e le coltelle a punta rubate in cucina, che legavamo alla sommità della canna, nella parte più grossa, spaccata a metà per accogliere il manico della coltella. C’era poca acqua, in ogni caso il nonno mi fece rimanere sulla sella per non farmi bagnare le scarpe e spinse il motorino fino al capannone. C’era gia un gruppetto di minatori che fumavano in silenzio. In un quarto d’ora, arrivarono Gigetto, Castania, Leonetto, Spennacchi. Anche tanti altri che non conoscevo, quelli che venivano da fuori, dai paesi intorno a Ribolla. Cominciammo a sederci, mentre qualcuno versava un po’ di vino nei bicchieri. “Vedi Piero, quello alto coi pantaloni marroni è Proietti, l’altro coi baffetti è Astorino. Sono due in gamba, vengono dalla circoscrizione provinciale. Stiamo organizzando lo sciopero con loro, forse si starà un po’ meglio dopo”. Dapprima prese la parola un rappresentante della miniera di Ribolla, Castania, uno che lavorava col nonno. “Compagni, questa è l’ultima riunione che facciamo di nascosto. So benissimo che chi sta qui rischia il posto, ma a sta laggiù, sottoterra, noi si rischia il culo”. Dopo una breve introduzione, bella schietta, passò la parola a proietti. “È l’ora di finirla con questo sistema di lavoro, col cottimo individuale, e l’avanzamento a franamento della volta, cosi si more porca Madonna. Si deve sta uniti e decisi contro la Montecatini, se siamo uniti non possono fare altro che riconosce le nostre ragioni. La prossima settimana ci sarà una riunione generale in cui si deciderà se fa lo sciopero a oltranza oppure no. Spargete la voce a tutti quelli che conoscete. Sarà una vera e propria prova di forza, o noi o loro. Stiamo uniti compagni, stiamo uniti”. All’uscita Giovannino, uno compagno sfegatato, che faceva il carichino, salutò tutti e disse, “Russia, saluta tutti a casa, specialmente BE-NI-TO”, isolando il nome dal resto della frase e alzando un po’ il tono della voce, sillabandolo, come per farlo sentire bene a tutti. “Vaffanculo Giovannino, testa di merda” gli rispose a muso duro. Non ci capii nulla. “Piero, monta su e reggiti a nonno, si va via, sennò ammazzo qualcuno”. Saltai sul sellino posteriore del califfone e invece che tornare indietro per la strada che si era fatto all’andata, si puntò diretti al circolino. “Aspetta qua e non ti muovere”, disse il nonno. Quando uscì dal circolino cantava come un usignolo. “Piero, devi sapé che il tu babbo l’Ho chiamato Benito solo per i pacchi del fascio, solo per questo, non te lo scordare”. “Lo so, babbo me l’ha raccontato”, risposi. Non capii bene allora perché disse questa cosa, io ero piccolo e lui era ubriaco, ma mio nonno non parlava mai a sproposito, neppure quando era imbenzinato. Gli bruciava in petto quella cosa, proprio a lui, il Russia, quella cosa non andava giù. Ma quando nacque mio padre, fu l’anno in cui mia nonna dovette andare a cavare i mattoni dalla fornace per campare i figli, anche mentre era incinta. Per fare la casa si erano indebitati tutti fino al collo. Ed era chiaro che ognuno doveva ingoiare qualcosa di indigesto, “Ma chi se ne frega, Benito, Adolfo, vittorio e vadano tutti a fare in culo”. Gas al motorino e via, al circolino di ribolla a fare il pieno.
La seconda partita – Quella sera di luglio le macchine di arfisi finirono prima del previsto, quindi con mio nonno tornammo al tavolo quando la seconda mano era iniziata da poco. Giocava l’accoppiata pelo col Ermanno il socialista contro il mancino e ivo, il ruspista. “Piero, guarda bene il tu zì Ermanno” mi disse sottovoce il nonno, mentre si stava un po’ in disparte, dietro al tavolo da gioco. Vedi? é furbo come una volpe, sembra che stia li, distratto, a far battute strulle con la su moglie, invece sta contando i punti e sta memorizzando le brische che sono passate”. Alla fine somma i punti sua con quelli che ha contato, i punti del compagno e quelli che c’ha lui in mano, cosi all’ultima mano saprà quali carte c’hanno quell’altri, hai capito?”. “Io non c’ho capito niente”, risposi. “Dai, fatti da un mazzo di carte da nonna in casa, che te lo spiego mentre si gioca”. Nel finale di quella mano disse: “Vedi, te c’hai 7 punti, un re e una donna. È la donna è di brisca, vero?”. “Si” risposi. “Vedi ora vinco facile, bischero”, disse ridacchiando sotto i baffi, mentre guardava di soppiatto la nonna. All’indomani al circolino, sperimentai il sistema del conteggio con Gigetto lo stradino. Da non crederci, funzionava.
La partita di pallone sotto la pioggia – Un pomeriggio dopo mangiato, noi ragazzetti cominciammo a giocare a pallone sotto una pioggia fina, quando con una respinta al volo troppo forte, feci finire la palla al di la del fosso, nel recinto delle pecore di Fine. Lei non si vedeva in giro, quindi scavalcai velocemente il fosso e la rete, presi il pallone e con un calcio lo ributtai di là, ai miei compagni. Poi lo sguardo mi cadde su una farfalla. Era colorata e galleggiava nell’aria. Li di fianco c’era una grossa carriola carica di legna. Presi a spostarla, cosi, senza motivo. Volevo sentirmi più vicino a quelli laggiù, in miniera, faticando un po’, immaginando di fare un lavoro da grandi, oppure chissà, volevo solo che il nonno mi vedesse. Però la carretta era pesante, si rovesciò e, non so come, ci finii sotto. Non respiravo più. Fu cosi che conobbi la magia di Fine. Si avvicinò veloce e, con un gesto simile a quello dei pescatori quando buttano la rete in mare, fece volare via la carretta e tutti i legni. Mi salvò. Da allora fui ancora più diffidente nei suoi confronti, ma quando la vedevo mi si stampava sul viso un sorriso idiota. Lei mi fissava impassibile.
Il vino – Ero abituato a vedere mio nonno che rientrava completamente nero di carbone, dalla testa ai piedi. Impiegava un’ora a tornare allo stato umano, specialmente da quando, invece che tornare direttamente a casa, faceva un salto al circolino. Ogni volta per lui era una scommessa riuscire a ritrovare la strada di casa. Arrivava sempre a trambelloni, quando ce la faceva. Spesso dovevamo andare a cercarlo, percorrendo il tragitto dal circolino a casa, lentamente, guardando con attenzione lungo i lati della strada. Era quasi sempre dentro a un fosso, completamente ubriaco. Una volta lo trovai davanti alla casa di Fine, la maga. Era sotto al ponte dello scolmatore. Era veramente a pezzi. Cercai di sostenerlo facendolo appoggiare sulle mie spalle, ma era difficile, piccolo com’ero. Farfugliava cose senza senso. Nel breve tragitto fino a casa, incontrai Fine, la guardai col mio sorriso idiota, misto all’imbarazzo per mio nonno briaco. Mi disse, “stai attento, il tu nonno oggi è strano, non lo confonde”. Arrivati ormai a casa, mi assestò uno spintone e fu come se si fosse svegliato in quel preciso momento. Parlava lucido e smise di barcollare, “ti ammazzo, ti ammazzo”, cominciò a dire, guardandomi. “Nonno, sono io, Piero, cosi mi fai paura” dissi. Per tutta risposta si tolse la cintola dei pantaloni e cominciò a inseguirmi. Mi salvai solo perché mi arrampicai sul tettino del castro dei maiali, sennò chissà cosa sarebbe successo. Alla fine il nonno crollò, era esausto, più per l’alcool che per la giornata di lavoro. Se ne andò borbottando, tra se e se, parole incomprensibili. “Riposa nonno, domani c’è l’assemblea per lo sciopero”, pensai. Quello più brutto, come dicevano proietti e Astorino. La sera successiva tornammo al capannone per l’assemblea. S’arrivò grossomodo intorno alla fine del turno, il momento in cui i minatori si raccoglievano nella conferenza permanente, cosi la chiamavano, una breve pausa durante la quale discutevano delle questioni sindacali legate alla sicurezza. Gli operai erano ancora a lavoro, allora il nonno tirò fuori di tasca un mazzo di carte e cominciò a distribuire. “Guarda bene, la brisca è come la vita, quando si danno le carte si nasce e ogni volta che si scarta e si pela, qualcosa muore e qualcosa rinasce, e cosi via, morte e rinascita finché non finiscono le carte. Allora si contano i punti. Tutto quello che accade nel mezzo, la partita sai, quella è la vita. Un gli da retta ai preti con sta storia della vita eterna. Dai, ora mescola bene e dai le carte”. Era distratto, si grattava la testa mezza pelata e guardava continuamente la porta d’ingresso del capannone, era visibilmente agitato per la riunione che si preannunciava molto tesa. Di li a poco arrivarono tutti. Interrompemmo la partita. L’assemblea fu, come previsto, nervosa. Tutti volevano prendere la parola. Seppure ci fosse molta rabbia, tutti mantennero un decoro e una dignità che ancora oggi ricordo con particolare calore. Mio nonno era tenuto in grande considerazione nel gruppo. Quando fu il suo turno, parlò a lungo, lo sentii pronunciare anche alcuni dei nomi delle stelle che indicava la sera quando, seduti sul bordo della strada, si prendeva il fresco insieme. Poi concluse dicendo: ”compagni, e ora si vede chi c’ha i peli nel culo”. Un bell’applauso risuonò nel capannone. Io ero ebbro d’orgoglio per mio nonno. Corsi ad abbracciarlo. Stavolta, tornando a casa, non passammo dal circolino, aveva portato con se una sacca con un del pane, una forma intera di pecorino e l’immancabile fiasco di rosso. Ci fermammo direttamente sotto a un olivo. Mise anche la tovaglia, in mio onore, pur avendone un’innata repulsione. “Sai come sarebbe contenta la nonna se ci vedesse ora”, disse con un sorriso beffardo. Tirò fuori il coltello da potino, quello senza punta e cominciò ad affettare il pane e il formaggio. Stappò il fiasco. Prima di ripartire me ne fece assaggiare un bicchiere, forse quella fu la mia prima ciucca. Fu indetto lo sciopero ad oltranza “Fino a quando la Montecatini non avrà accolto tutte le nostre richieste”, dissero quelli del sindacato. Io la mattina successiva entrai in bagno, mi chiusi a chiave e, davanti allo specchio, in una posizione improbabile, osservai con attenzione il mio di dietro. Non vi era traccia alcuna di peli. Mi sentii inadatto allo sciopero. Il giorno seguente lo raccontai al nonno, che scoppiò in una fragorosa risata, di quelle sue, spudorata. Ero rosso di vergogna. Lo sciopero stava affamando tutti. Stavano un po’ meglio i contadine, i muratori e quelli che facevano i mattoni per i muratori, i padroni beninteso, non mia nonna. Gli altri si arrangiavano. Nonno spesso tornava a casa con ricci, istrici, tartarughe e uccelli di ogni genere. Nei periodi più duri, mio padre e mio zio pelo, scaricavano con cura i camioncini della frutta, con una tecnica piuttosto ingegnosa, quanto pericolosa. Quando i camion carichi di frutta partivano dalle aziende, loro due, sul califfone del nonno, si mettevano dietro, senza farsi vedere. Poi mio padre, che era più magro e scattante, saltava su e scaricava veloce la frutta, buttandola di lato nel fosso, alla fine saltava giù dal camion, che ormai aveva preso velocità, rischiando l’osso del collo. Rimontava sul motorino con lo zio e percorrendo all’indietro il tragitto, raccattavano la frutta. Diceva sempre il mi babbo, “vergogna è andà a rubà e tornà senza”. Forse è per questo che loro non si vergognavano di rubare, tornavano sempre con i sacchi pieni.
L’ultima mano – La partita memorabile del 51 poi fini in malo modo. Andarono avanti a giocare fino alle tre di mattina. Addirittura verso mezzanotte accesero anche un fuoco nello slargo davanti casa. Qualche macchina si fermava di tanto in tanto, pensando che c’erano le puttane. Il nonno, dal tavolo, all’ennesima auto che si fermò, con un iniziale ghigno che sfumò velocemente in rabbia, gridò, “andate alle case dei dirigenti della Montecatini, le puttane sono là, andate, sennò vi rincorro col martello”. C’era da credere che l’avrebbe fatto. Cosi quello ripartì con una sgommata, piuttosto impressionato. Più che una partita di brisca, data la lentezza, sembrava giocassero a scacchi. La partita accelerava all’improvviso verso la fine di ogni mano, quando i toni si alzavano, proporzionalmente al numero di fantasiose bestemmie che venivano declamate con inaspettata eleganza e proprietà di linguaggio. Io li sentivo dalla finestra della mia camera che dava proprio sul giardino di casa. In realtà la partita era tra minatori e muratori, mio zio aveva sdirazzato, come si dice da queste parti. Anche il mio babbo stava per cambiare mestiere, voleva fare il manovale. Il lavoro in miniera non era il massimo per un giovane. Ma questo non piaceva al Russia. Lui era uno che resisteva, era stato un partigiano, picchiato più volte dai fascisti, la miniera era una passeggiata per i tipi come lui. Fu così che ad un certo punto, innervosito, anche perché continuava a perdere, ammazzettò le carte e le portò via. La partita fini così. Finì anche lo sciopero, finì male, molto male. I minatori tornarono al lavoro stremati, e la Montecatini attaccò il sindacato, indicandolo come unico responsabile della situazione in cui si trovavano i minatori. “Siamo andati a pelare quelle buone all’ultima mano, ma chi ha dato le carte è stato dispettoso”, ripeteva sempre, specie quand’era briaco. “Giochi una carta, ne peli un’altra, ora c’è una combinazione diversa, Te la giochi nel rapporto tra te e le tre carte che hai in mano e nel rapporto tra di loro, vedi? Fai una scelta, ma sembra che noialtri poveracci la sbagliamo sempre. Comunque non conta chi vince, conta come giochi la partita. Piero he ne dici, ti piace?”, Mi chiedeva, come per avere conferma. “Conta come giochi la partita”, ripetetè poi piano, gettando lo sguardo nel vuoto, con la voce che risuonava come un eco lontana, che risuonava nel petto svuotato. Ma lui non sapeva perdere. Dopo lo sciopero cominciò a fuggire. Ora capisco che lui, forse, era in fuga da sempre. Poi ci fu la strage di Ribolla. Il nonno era di prima gita. Uscì dal Camorra, il buco del culo come lo chiamavano tutti, che era il tocco. Scesero giù, dopo di lui, quelli che morirono. Dopo lo scoppio il nonno tornò al Camorra per aiutare, ma lo rimandarono a casa. Ci voleva gente fresca per le operazioni di soccorso, gli dissero.
Epilogo – Dopo i morti di Ribolla, niente fu più lo stesso. Il nonno, che era un tipo ombroso e taciturno, smise di parlare e di giocare a brisca. Nel gennaio del 1955 fu licenziato perché era iscritto al sindacato. Almeno il Natale passò tranquillo, i padroni della Montecatini erano ferventi cattolici. L’unica cosa che non cambiò, fu il bere. Era sempre sul suo Califfone, quello vinto alla festa dell’unità, a fare viaggi al circolino per riempirsi con il rosso della casa. Una mattina presto, già ubriaco, cadde di motorino e andò a sbattere con la testa su un colonnino di cemento, una di quelle pietre miliari dell’Aurelia. Morì. Andò a pelare le carte buone all’ultima mano, come amava fare, ma trovò solo scartine. Fu la quarantaquattresima vittima di quel 4 maggio. Di quelle, tante, che arrivano dopo, con calma, senza esplosioni, senza clamore. Quando arrivò la notizia dell’incidente, io ero a casa, incidevo con molta cura lo scafo di un modellino di barca a vela che stavo costruendo. Mentre tutti correvano dal nonno, all’ospedale di Grosseto, io rimasi la, a casa, in silenzio, continuando a lavorare a testa china. Doveva apparire strano quel palazzone cosi vuoto e silenzioso, quando di solito, era pieno di gente e di vita. Risuonava, dentro, solo una radio dimenticata accesa. Era l’anno delle olimpiadi, trasmettevano la radiocronaca della maratona. La casa pareva una balena in agonia, che dopo essersi spiaggiata, concertava gli ultimi lamenti. Porte e finestre rimasero aperte, come bocche spalancate, catturate nell’immagine fissa di una fotografia, nell’istante di massimo chiacchiericcio e confusione, che però strideva con il silenzio irreale di quel momento, rotto solo dalla voce dello speaker, che, con enfasi, descriveva la corsa di un maratoneta, in fuga solitaria da più di un’ora. Per un po’ continuai a lavorare alla barchetta, poi, vinto dalla realtà, cominciai a vagare intorno casa in cerca di qualcuno. Ero solo. Avvertii possibile una fulminea, quanto inaspettata, libertà. Vidi una farfalla su un fiore, presi un bastone, la uccisi. Piansi. D’improvviso affiorò nella mia mente l’immagine di quel maratoneta. Mi colpì il suo sguardo, che era come avvolto da qualcosa di oscuro. Mi resi conto che lo sguardo, quegli occhi, erano quelli del nonno. Cominciai a correre. In fin dei conti, minatori e maratoneti, una cosa ce l’hanno in comune, si spingono, entrambi, oltre le possibilità umane di sopportazione. La fatica, la paura, il sudore. Gli occhi dei maratoneti nel momento di maggior sforzo, svelano il fantasma della morte. È un paradosso, sembra quasi che per queste persone, cosi vitali, l’unico modo per riuscire a vivere, sia quello di morire un po’, ogni giorno. Un passo, un colpo di piccone e un passo ancora e avanti così. Il nonno fuggiva dai suoi fantasmi, con il vino e con le puttane. Io correvo, correvo senza voltarmi, anche se qualcuno mi seguiva, ne ero certo. Finii tra le braccia di Fine, la maga, che da lontano aveva assistito a tutta la scena. Mi tenne stretto tra le braccia per tutto il pomeriggio, fino al ritorno dei miei. Ci misi alcuni giorni per realizzare quello che era successo. Il nonno non c’era più. Noi ragazzetti che si abitava nella campagna intorno a Ribolla, dopo la sciagura, diventammo grandi improvvisamente. Per me poi, la morte del nonno s’era portata via il gioco spensierato, compresa la brisca. Poi un giorno passò la banda. La seguii come incantato, c’erano tanti minatori tra i musicanti, compreso il vecchio Castania, quello del sindacato. Somigliava tanto al nonno e suonava la grancassa. Avevo molte domande da fargli. Ma questa, è un’altra storia.

Invisibili

Esco di casa, sono le sei del pomeriggio, direzione Grosseto.
Attraverso il mio paese sicuro e invisibile, mascherato da FIAT punto, color carta zucchero. Cintura allacciata e fari accesi, anche di giorno. Unico neo il ciotolio della marmitta dissaldata, che mi rende riconoscibile.
Ma è un attimo, un fastidio momentaneo che i miei compaesani devono sostenere per qualche istante, ma non c’è alternativa dopotutto.
Tutti sono indaffarati a curate la propria invisibilità, ognuno a modo suo.
Ognuno cura l’invisibilità esattamente con l’organo preposto alla scoperta: gli occhi, lo sguardo. È proprio lo sguardo che inquadra, scruta, incasella, e che, alla fine, nasconde.
Una volta stabilito chi o cosa sei, vieni riposto in un luogo imperscrutabile, e li sarai destinato a dimorare, per sempre.
Siamo spesso come dei pianeti che si avvitano su orbite che non si incontreranno mai.
Cellule impazzite che, per paura di un contagio, si evitano, facendo sparire dalla vista ciò che temono.
È così che, decine di nord africani, fuggiti dai loro paesi di origine, e approdati non si sa come nel mio paesino maremmano, si muovono completamente ignorati lungo la stradine limitrofe.
Un gruppetto arriva da sud del paese, un altro da nord e, a piedi o in bici, raggiungono il centro, e li poi, non si sa dove vanno, ne cosa fanno.
C’è chi li vede come formiche o mosche, chi vede solo il pericolo “si cammina a sinistra” e che cavolo. Ma poi si archivia, si smette di vedere, l’occhio fa sparire.
Da dove vengono, che storie raccontano, chi hanno lasciato, se tra di loro si conoscevano già prima di arrivare: a nessuno importa.
Noi sappiamo già tutto di loro, ce lo hanno raccontato in tv.
Ma stasera alle sei e cinque, appena uscito dal mio paesello, procedendo lentamente verso Grosseto, inquadro da lontano un gruppo di tre nordafricani.
Non so perché l’ho fatto, sinceramente, ma proprio nel momento in cui stavo arrivando alla loro altezza, pochi metri prima di incrociarli, alzo la mano nel segno del saluto e la faccio oscillare ripetutamente e a lungo da destra a sinistra.
I tre, all’unisono, con una prontezza che neanche i Berliner Philharmoniker all’epoca in cui erano diretti da Abbado, alzano la mano, tutti e tre la destra, per rispondere al mio saluto.
Un gesto che ha scoperchiato un mondo che stava li, proprio sotto Gli occhi di tutti.
Un mondo che, a differenza del nostro, di noi, che con lo sguardo siamo abituati quotidianamente a nascondere e occultare, ci vede, ci osserva, e contemporaneamente ha bisogno di essere visto.
A differenza di noi, seduti nelle nostre macchinine chiuse e climatizzate, che con lo sguardo escludiamo, ignoriamo, loro ci guardano, e a volte, probabilmente, per delicatezza, evitano di farci sapere cosa pensano di noi.

Spazi interni

“…per conoscere un altro è necessario pensarlo dentro di se, riservare per lui uno spazio nella nostra mente. Una relazione non si sostanzia del semplice stare vicino fisicamente, ma della capacità di tenersi dentro l’un l’altro; così come la comunicazione affettiva tra due persone non è semplice trasmissione di contenuti o informazioni, ma dialogo tra interiorità, armonizzazione di mondi interni. Conoscere l’altro, riservargli uno spazio nella propria mente, è possibile solo identificandosi, seppure transitoriamente, con lui. È grazie all’empatia, cioè alla capacita di provare i sentimenti dell’altro attraverso il ricorso all’autoanalisi e la ricerca, nella propria esperienza, di qualcosa di analogo a ciò che l’interlocutore sta in quel momento vivendo, che è possibile comprenderlo…”

Maria Antonella Galanti

Da “Affetti ed empatia nella relazione educativa”

Testate

Mi sembra giusto, dopo aver realizzato la splendida testata (così si chiama) che si può vedere, sfavillante, in alto nel sito, fare una leggera/minuscola riflessione. (Dovrò pensare ai TAG per questo scrittino). Eh si, perché la testata, una volta era – e lo è tuttora – (solo che adesso rispetto alla stessa c’è una disattenzione che considero puro snobismo culturale) quella parte del letto dove, per forza di cose, si va ad indirizzare la zucca, la chiorba, la crapa, pelata e non, nell’atto di coricarsi. Grande l’attenzione per la testata, ce n’erano in ferro battuto, stile postmoderno, a libreria, quelle con la radio tipiche degli anni 70 (che poi non funzionava mai) e altre a carattere esclusivamente ornamentale – pittorico, alcuni invece mettevano il Che. Comunque la si metta è la parte alta e volitiva del letto; quindi adesso, questo sito neonato, con la sua bella testata, mi fa pensare ad un letto, a molte, molte piazze, svariate piazze. Un bel letto multipiazza dove c’è posto per tanti, per tutti, un luogo infinito, multiforme. E poi, dico, nel letto si dorme, e si sogna, quindi abbiamo a che fare con un sito onirico, un sitonirico, bah, lo scrivo tuttattacato, che rende meglio. Nella prossima puntata scriverò delle “testate”, sempre cose che hanno a che fare con la zucca, la chiorba, la crapa, pelata e non, ma stavolta l’attenzione sarà rivolta ai muri verso i quali, le suddette, sono dirette, e il relativo lavoro per sbrogliare i fili attorcignati della vita nei quali i piedi inciamparono, un dì.

Il Re muto

Un giovane re, all’età di 24 anni, perse la parola.
Egli governava uno staterello, lontano, sperduto, quasi misterioso, che stava in un puntino piccino piccino della carta geografica, lungo l’estesa linea di confine tra il continente europeo e quello asiatico: si chiamava SIMILA’.
Al momento non si riuscì a capire perché avvenne, fatto sta che, da un giorno all’altro, il Re finì di favellare.
Oh Mamma mia, ma che sconforto, tutti i suoi sudditi si intristirono. “Aveva una così bella voce”, “si, si, si, che bella voce che aveva”, pensarono in molti.
Ovviamente il Re non parlava, è vero, in compenso pensava molto, ma questo il suo popolo non lo sapeva dato che, lui, non poteva più dirlo a nessuno.
Quello che in verità nessuno conosceva o poteva immaginare è il motivo per cui il Re non volle più saperne di pronunziare parola.
L’apparato fonatorio del reale, diciamo così, era in splendida forma, semplicemente, egli, si stancò di parlare. Tutti parlavano, ma senza dire alcunché di significativo e, soprattutto, nessuno sapeva più ascoltare; erano tutti come sordi, incapaci di comprendere veramente l’altro da se. Svanita era ogni capacità di capire il mondo altrui. Ormai la parola aveva perso ogni significato. E cosi le parole non dicevano, anche se, a dire il vero, neppure il silenzio silenziava, infatti pur non pronunciando alcuna parola, i pensieri affollavano la mente del Re, come innumerevoli e pesanti locomotive, che a volte scorrono lente, e altre volte sbuffano a tutto vapore.
Scoprì che riusciva a sentire il silenzio solo con certi suoni della natura e che, ad esempio, piccoli gruppi di uccelli, al crepuscolo, che cinguettavano gli davano pace, così come il mare, il vento tra le fronde degli alberi, oppure le lingue sconosciute, esotiche.
Ma più di ogni altra cosa, la musica; il Re sosteneva che per fare il vero silenzio ci voleva la musica.
 
 
Passò del tempo e il Re incominciò a circondarsi di musicisti, ne infilò in gran quantità in ogni stanza.
Per un certo periodo il giovane imperatore, mantenendo fede al suo impegno, e dovendo comunicare con i suoi sudditi, la servitù, i consiglieri di corte, e chiunque altro, si servì di piccoli bigliettini che imparò a scrivere velocemente, ma ben presto scoprì le potenzialità di un altro mezzo molto potente, molto interessante.
Insomma, far silenzio, tacere, non profferire parola, o come dir si voglia, questo aveva portato molte idee al Re; inoltre, egli, aveva imparato soprattutto ad ascoltare.
Beh insomma, il mezzo potente e importante, la grande intuizione del giovane Re, era la musica; ed egli cominciò a comunicare con il prossimo solo attraverso i suoni.
Accadde una sera, durante una delle numerose, e un po’ noiose, feste di corte, a cui il Re presenziava silenzioso come al solito.
Tra gli invitati c’era una ragazza molto graziosa, e il Re ne fu immediatamente colpito.
Di getto si diresse verso di lei per dirle (…) oh, mah oh, mmh, per dirle cosa? Si ricordò che egli aveva deciso di non parlare più con anima viva.
E poi cosa avrebbe potuto dire?, quello che egli provava per quella ragazza non aveva parole.
Si chiese, allora, tra se e se, “come posso dire una cosa indicibile come il miscuglio di sentimenti che mi sta tormentando il cuore?”.
Tornato sui suoi passi, si sedette sul trono, e cominciò a canticchiare e a fischiettare, e si rese conto, che quella melodia raccontava tutto quello che avrebbe voluto dire alla ragazza.
Si avvicinò ai suoi musicisti e affidò loro la melodia che aveva canticchiato e fischiettato un momento prima.
Oh, beh, concorderete che canticchiare non è parlare, anche se, per cantare, si utilizzano la stessa bocca, le stesse corde vocali che si usano per parlare; quando si canta, però, non c’è un pensiero logico, non c’è un significato; il Re scoprì che la musica non aveva nessun senso, come quello che provava per la ragazza, e questo lo rincuorò molto.
 
 
Da quel momento in poi, a corte, ma non solo, fu tutto un fiorire di melodie e armonie; velocemente lo studio della musica si diffuse in tutta la regione.
Il Re cominciò a comunicare solo con i suoni, utilizzando, attraverso i suoi musicisti, intervalli stretti, ampi, dissonanze stridenti e più morbide, consonanze vacillanti o solide come la roccia. E poi le armonie, cosi ricche, che potevano contenere anche suoni in completo e totale disaccordo tra di loro.
Armonie in disaccordo?
Beh certo, solo nelle armonie musicali possono esservi suoni in completo disaccordo; infatti, tra le persone, si dice che esse sono in accordo solo quando tutti la pensano nello stesso modo.
Com’era ovvio tra il Re e la ragazza sbocciò l’amore, che si dispiegò come una musica libera, improvvisata, e di li a poco convolarono a nozze. La cerimonia nuziale, a differenza del solito, fu celebrata da un maestro concertatore, che diresse con la bacchetta da grand’orchestra: sposi, testimoni di nozze, parenti e tutto il resto. L’unica cosa che non cambiò rispetto ai soliti usi, furono i cori, a bocca chiusa, degli invitati, già alticci.
 
 
Ogni qualvolta che il Re voleva esprimere un sentimento si appartava con i musicisti e cominciava a cantare una melodia, e i musicisti cominciavano a predisporre gli intervalli e le armonizzazioni che più si avvicinavano all’idea melodica del Re.
Velocemente questa modalità espressiva si diffuse ovunque nel piccolo regno e tutti cominciarono a comunicare con i suoni; in ogni villaggio, nelle campagne più sperdute, fu tutto un fiorire di melodie che passeggiavano, lavoravano, studiavano, viaggiavano.
Se ti capitava di passare per il regno di SIMILA’ a quell’epoca, avreste potuto sentire un’infinità di melodie che risuonavano una accanto all’altra, e che sovrapponendosi formavano armonie libere, come infiniti gruppi musicali che suonano uno accanto all’altro, in un caos apparente, ma dove, in realtà, ogni tema si nutriva dell’altro, vicendevolmente, e la sensazione era di bellezza moltiplicata all’infinito.
Come tutti i sentimenti e gli affetti riescono ad assumere infinite sfumature e gradazioni, così anche le melodie erano iridescenti, libere.
Inimmaginabile la forza di questo modo di comunicare, e tale era l’idea di libertà che essa donava che, ben presto, si sviluppò in tutto il mondo.
 
 
Ma appena fuori dai confini del piccolo regno di SIMILA’, a qualcuno, questa libertà cominciò a non piacere, e in molti iniziarono a fissare sulla carta delle melodie che, a dir loro, meglio esprimevano i sentimenti, e invece che lasciar libere le persone di inventare nuove melodie, imposero a tutti i loro canti, alquanto banali.
Quel che veramente stupì gli abitanti del regno di SIMILA’ fu che, con l’andare del tempo, le persone, con molta facilità, per esprimere i loro sentimenti utilizzassero partiture sempre uguali, che reperivano nei supermercati delle melodie, negli uffici delle melodie, nelle banche delle melodie, come ad affermare che ci potessero essere  due sguardi uguali, due sorrisi uguali, due identici modi di toccare e di abbracciarsi, e così via. Fu così che, senza averne piena consapevolezza, le persone, utilizzando sempre più melodie simili, se non proprio uguali, si impoverirono, preferendo la comodità di utilizzare melodie, melodie, melodie. Melodie altrui.
 
 
Avevano una grande paura quelle povere persone, la paura di dover sentire i loro affetti, forse, oppure invidia per gli affetti altrui, e di quelle qualità che, probabilmente, loro stessi, non si riconoscevano; o chissà, per motivi commerciali. Fu così che le persone cominciarono ad affidarsi alle melodie che si trovavano sul mercato, invece che creare loro stessi quelle che gli appartenevano.
Anche nelle scuole fu così. Agli alunni venivano insegnate solo le frasi musicali che ormai erano entrate nell’uso standardizzato, e in certi disperati casi, avevano anche l’arrogante convinzione di poter spiegare agli alunni il preciso significato di quelle composizioni musicali; e così la potenza liberatoria delle melodie del regno di SIMILA’, venne completamente disattesa e il suo messaggio radicalmente sovvertito. Distrutto.
 
 
Fu tale l’offesa che il Re, si chiuse in se stesso, smise anche di cantare; l’unica forma di comunicazione fu per lui esclusivamente l’ascolto; la cosa si estese anche ai suoi sudditi.
Anche la moglie fu presa dallo sconforto, e un giorno accadde addirittura che qualche breve parola ricominciasse a riaffiorare dalla sua delicata bocca.
Tuttavia quelle poche parole più che un significato continuavano a specchiare l’animo dolce della donna, assomigliando ancor più ad un canto, ma ciò nonostante, il vecchio imperatore, intimorito dall’accaduto, promulgò un editto, secondo cui, d’accordo con la sua gente e la consorte, il regno di SIMILA’ non esisteva più; pertanto, di questo paese, oggi non v’è più traccia, ne sulle cartine geografiche, ne sui libri di storia. Quel popolo si salutò, semplicemente, come quando si scioglie una compagnia teatrale, e il Re chiese a tutti di emigrare, in un perenne vagabondaggio, per donare, a tutti, il loro sentire.