Prologo – A stomaco vuoto il primo bicchiere di rosso arriva veloce e pesante. “Vedi Piero, noi altri giù in miniera si picchia giù duro, perché se non picchi forte il carbone non si stacca, hai voglia a dire. Ci devi credere nelle picconate, sennò fai fatica uguale e il carbone rimane li. Allora picchi, picchi ad occhi chiusi, tanto laggiù è buio pesto, si vede poco o nulla”. Mi guarda fisso, in silenzio. Aspetta un cenno di vita, perché senza vita il racconto non va avanti. “Sì nonno, ad occhi chiusi, ho capito”, mi affretto a rispondere. “Si sentono bene i respiri, però”, ricomincia veloce. Perché vedi, c’è silenzio in fondo alla miniera, e il fiato, un po’ per la polvere, un po’ per la fatica, è rumoroso. Sembra che si fa l’amore la sotto, tutti insieme con la terra. Io mentre spiccono, per esempio, penso a fuori, a sopra, penso alla luce. Penso alle farfalle, leggere, che galleggiano nell’aria”. “Si, una farfalla”, commento, e mentre lo faccio, agito le braccia come fossero ali. “Bravo Pierino, quando sono la sotto che scavo, se vedi una farfalla, puoi immaginare che lì vicino ci sono io”. Sorride. Col secondo bicchiere indossa gli scarponi da lavoro. Il rosso è l’anticamera della miniera; il prima, il durante e il poi. La fatica non c’è solo col piccone in mano, c’è prima, per la paura, che quasi ti pisci addosso a scendere in quel budello, poi, giù in fondo, quando sei nel buco del culo, tanto, si piscia in piedi, che poi, si mescola al sudore e riempie le scarpe; durante, sennò la forza proprio non c’è; dopo, il rosso, serve a pulirti dentro, perché la pulizia, per i minatori, non inizia mai dalla pelle, che se ne dica. “Ora vai in casa da nonna e fatti dare la panierina di latta, al Camorra sono arrivati i topi, sennò si mangiano tutto loro”. “Vado”. “Ciao Piero”. “Ciao nonno”.
Il gioco – Per noi ragazzetti che si abitava nei dintorni di Ribolla, le giornate, d’estate, erano fatte di gioco. Gioco semplice perlopiù: corse dietro al pallone, arrampicate sugli alberi e dispetti. Sovente costruivamo dei carretti sterzanti, ai quali si applicavano i cuscinetti d’acciaio di vecchie pulegge, al posto delle solite ruote di gomma delle carriole, cosi si filava più veloci e precisi. Con questi si gareggiava sull’Aurelia. Si scendeva giù, dal poggio della Collacchia, partendo dal bivio per Tatti, rischiando spesso di scontrarci con le auto e i motorini. Altre volte invece si faceva a botte, ci si prendeva a sputi, sassate e si facevano vere e proprie battute di caccia alle lucertole e alle rane nei fossi. In poche parole, quando si giocava, non si guardava in faccia a niente e a nessuno; si spianava tutto: alberi, finestre, animali, giù colpi fino a che ci si faceva. A fine giornata c’era la conta dei danni e le punizioni delle mamme, che purtroppo per noi, nelle famiglie dei minatori, non era mai una passata di rosario, ma, più spesso, ceffoni sonanti e cinghiate. Nella nostra casa, l’ordine di quello che, con molto ottimismo, chiamavamo giardino, una breve spianata con qualche alberello sparso qua e la alla rinfusa e molto ghiaino (abbondante e a buon prezzo, all’epoca, per via della vicina cava della Bartolina) nel quale quasi si affondava con le scarpe, era messo a dura prova dalle nostre sfide a pallone. Si andava avanti fino a che il fiato reggeva, poi, sfiniti, ci si sdraiava su un campo di grano o per terra, sotto un olivo, dove puntualmente si prendevano le zecche in testa. Anche di sera era uguale, si giocava a nascondino col favore del buio. L’ultima sfida però, anche di notte, era a pallone. Si mirava con particolare accanimento ad una pianticella di alloro del nostro giardino che non crebbe mai, poverina, faceva sovente da palo sinistro; il palo destro, invece, era un giovane leccio, unico sopravvissuto alle nostre scorribande. Ancora oggi è la, gigantesco. Le pallonate ormai gli fanno solo il solletico. Appena calava il buio, subito dopo cena, i grandi cominciavano i loro tornei di brisca. C’era magia nel loro modo di scrutarsi mentre giocavano. Noi piccoli ci si metteva attorno al tavolo ancora col fiatone e si guardava, con ammirazione, l’arte di questi giocatori. Inizialmente erano infastiditi dal nostro ansimare e dai rimasugli di vocio che ci portavamo appresso, poi, poco a poco, quando il nostro respiro si calmava, tornavano a immergersi nel loro mondo, ignorandoci completamente. Silenziosi, facevano roteare gli occhi per spiare gli accenni degli avversari o per riceverne dal proprio compagno, curandosi di non essere visti. Le carte ben strette in pugno; anche loro che tenevano in mano le proprie, le sbirciavano di soppiatto, come per mettersi al sicuro da se stessi. Vivevamo tutti insieme, nonni, zii, cognati, cugini, fratelli e sorelle; cinque famiglie in tre generazioni, sparpagliati sui due piani di una casa che era diventata, col passar del tempo, una specie di comune.
La partita memorabile, luglio 1951 – Una sera, verso la fine di luglio, venne in visita a casa nostra lo zio Parise, aveva ancora addosso gli abiti sporchi di calcina. Veniva raramente li da noi a Casteani, dove, peraltro, aveva abitato fino a qualche anno prima. Si era trasferito a Ribolla con la famiglia. Lì costruì la sua casa a forza di domeniche, come amava sottolineare, per esaltare la sua caparbietà nell’ottenere ciò che desiderava. Era sempre a lavorare. In paese, una volta, sentii dire che l’avevano visto tirar su tramezzi anche dopo mezzanotte; teneva accesi i fari del camioncino puntati sul muro che stava tirando su, sempre con la sua sigaretta accesa in bocca. Era chiaro che quando veniva da noi a Casteani, non era per parlare di lavoro. Voleva giocare a brisca, noi tutti lo sapevamo. Questa cosa ci faceva sorridere, come anche quel suo modo sempre imbronciato e sigarettato che aveva di presentarsi. Si sedeva sempre al solito posto e aspettava, in silenzio, un bicchiere di vino. Quella sera scese dal camioncino che eravamo ancora tutti a tavola. Non si preoccupava molto delle formalità, nessuno lo faceva all’epoca, a dire il vero. Il nonno e mio babbo cominciarono a sparecchiare la tavola mentre ancora si stava masticando l’ultimo boccone e prima ancora che lo zio, sceso dal camioncino, avesse richiuso lo sportello. Disse, tracannando gli ultimi sorsi di vino rimasti nel suo bicchiere, “via, andersen donne, ora si gioca a brisca, e non rompete i coglioni”, mentre continuava ad ammontinare i piatti sporchi sul tavolincino accanto all’ingresso di casa. C’era la stessa voglia di due giovani amanti che si strappano i vestiti di dosso prima dell’amore. Le donne, intuendo questa passione, erano rosse di gelosia e di rabbia, anche perché questo raddoppiava loro il lavoro, oltre a rovinare la cena che avevano preparato tutte insieme. Ma tutte le proteste furono inutili, anzi, poco non ci mancò che il nonno alla fine non prendesse la tovaglia per i quattro angoli e, sollevandola, ne gettasse tutto il contenuto nel giardino davanti casa. Fu cosi che cominciò la partita più bella e combattuta di quell’estate. Tutta la famiglia era riunita grazie a quella partita, forse fu questo che la rese memorabile. Era il luglio del 1951, i minatori di Ribolla, compresi il nonno, mio padre Benito e lo zio Vittorio, erano al quinto mese di sciopero. C’era tanta fame e molto nervosismo.
I giocatori – Mio padre Benito, soprannominato “il professore”, un vero esteta della brisca e primo allievo, per bravura, di mio nonno (un autentico figlio d’arte se non c’era lui la partita non era veramente interessante ) zio Ivo in arte il ruspista; zio Parise l’anarchico; zio Vittorio detto “pelo”; Ermanno “il socialista”; infine nonno Fortunato il “Russia”, cosi chiamato perché era un comunista di quelli tosti; ce l’aveva a morte con i preti ed era uno dei più grandi bestemmiatori che avessi mai conosciuto. Questi erano i giocatori della sfida che si stava preparando. Era l’unico rito che quegli uomini senza chiesa osservavano, forse l’unica forma di spiritualità che conoscevano, guai a violare anche una soltanto delle regole sacre della brisca. Si partiva sempre con la carta più alta per stabilire chi doveva dare le carte. Le coppie erano quelle ormai consolidate da anni di gioco, molto più di un matrimonio con prole, giusto con qualche frivola scappatella, ogni tanto, nelle gare delle feste dell’unità e nelle sagre paesane. Russia col professore, pelo col socialista (coppia estremamente riflessiva) e il ruspista con Parise l’anarchico, soprannominato anche il mancino, perché murava con la sinistra, con in bocca l’immancabile sigaretta sempre accesa e nella destra il paramano.
La stella più luminosa – Quella sera, il nonno perse la prima partita quasi subito. Entrò, per la seconda partita, la coppia formata da Pelo e il socialista. Io ero seduto giusto dietro ai giocatori, guardavo la partita, cosi mentre scansò la sedia per alzarsi, il nonno, mi dette due pacche sulle spalle e disse, “vieni Piero, si va sulla proda a prende il fresco”. Fino alle nove e nei periodi centrali della stagione estiva, anche fino alle dieci, passavano gli “arfisi”, così li chiamavamo noi, gli aretini, fiorentini e senesi, AR-FI-SI – dalle targhe, appunto – che rientravano a casa, con i loro carichi di sole sulla pelle, dopo una giornata di mare. Ci si metteva sul ciglio della strada e ci facevamo sventagliare tutte le sere dalle macchine e dai vespini che passavano. Si stava col culo bello piantato sulla scarpata, al di la dalla strada, e con le gambe a penzoloni nel vuoto, si guardava la notte. Mio nonno conosceva tutti i nomi delle stelle. Mi teneva il braccio sulle spalle, poi metteva il viso vicino al mio, per avvicinare più che poteva il punto di osservazione e, messo così, puntava in alto il dito verso una stella, anche se io, non capivo mai quale indicasse di preciso. A volte era così brillo che la mano non era ferma come avrebbe dovuto, quindi capitava che si faceva un po’ di confusione coi nomi e si finiva spesso per discutere, anche animatamente, se la stella a sinistra, appena sotto la luna, fosse la stella Marx”, oppure la stella “Lenin”. La politica si imparava anche così allora, guardando il cielo.
La bicicletta – Una volta arrivati, noialtri ragazzetti, dopo esserci arrampicati con le biciclette su per una salita che toglieva il fiato e che, quasi mai, riuscivamo a percorrere senza scendere dal sellino, ci si metteva seduti sul punto più alto di una collinetta, piuttosto appuntita, che stava proprio dietro casa mia. Si stava li, in silenzio, per alcuni minuti, come piccoli indiani in attesa dell’attacco alla diligenza. Studiavamo quello che sarebbe diventato, di li a poco, il percorso di un gioco piuttosto pericoloso che si faceva spesso: si trattava di scendere giù dalla collina con le bici, a tutta velocità, e centrare un ponticino, molto stretto, che permetteva l’attraversamento di un fosso profondo un paio di metri, proprio ai piedi della collina. Ogni volta si scendeva giù uno dietro l’altro a distanza molto ravvicinata, si gridava come dei pazzi, interrompendo improvvisamente il silenzio che ci eravamo imposti fino ad allora, rischiando di franarci addosso l’un con l’altro. Subito al di la del ponte c’era la vigna dei vicini, quindi bisognava stare attenti anche a non andare a sbattere contro qualche colonna del vigneto, una volta centrato il ponticino. Questa prova di coraggio era una sorta di “rompete le righe”. Dopo ognuno se ne andava per conto suo. Appena salutati i miei amici, io me ne andavo sempre sull’Aurelia. Spesso mi dirigevo verso Ribolla con molta calma, annusando l’odore della campagna. Appena finita la salita della Collacchia percorrevo senza mani tutta la discesa che portava fino all’ingresso del paese, senza pedalare, sfruttando solo la velocità che avevo acquistato. Presi l’abitudine di fare un segno sull’asfalto con un gessetto nel punto in cui, finita la spinta, ero costretto a mettere giù i piedi, cercando di superarlo ogni volta. Ma nell’altra direzione non andavo oltre la casa dei vicini. Accanto a noi abitava Fine, la maga. Tutti noi, ragazzetti della zona, avevamo sempre un certo timore nei suoi confronti; dicevano che la sua magia fosse molto potente. Leggeva i fondi del caffè, prediceva il futuro, toglieva le fatture e altre cose del genere. Sta di fatto che io non riuscivo mai ad andare oltre casa sua. Il territorio al di là della sua traversa, cento metri appena da casa mia, era sconosciuto per me, quando uscivo da solo con la mia bicicletta. Non che facesse nulla di spaventoso, si metteva semplicemente davanti casa e, seduta sugli scalini, mi fissava, immobile. Sembrava una statua di cera. Mi fermavo, la scrutavo con aria di sfida, ma lei non batteva ciglio. Ogni volta, giravo la bici e tornavo indietro.
L’inverno prima dello sciopero – Se l’estate era leggera e giocosamente calda, l’inverno in maremma era umido e puzzava di fumo che usciva dai caminetti che non tiravano, e dai tubi di scarico delle cucine economiche che non erano ben collegati tra di loro. Si passavano le serate dai parenti, che erano piuttosto numerosi. Avevamo preso l’abitudine, appena dopo cena, di fare una visita a nonni, cognati e cugini, in modo accurato e rigoroso, sia nel tragitto che nei tempi. Durante le veglie, l’occupazione più gettonata era sempre il gioco delle carte. I grandi si prendevano sempre la scena, noi altri, i figli, si guardava come al solito. Mio nonno era l’unico che si perdeva un po’ con me. “Allora Piero, tre carte ogni giocatore, e questo lo sai. Poi si decide qual’è il seme che comanda. Fai conto che quello è il padrone. Uno, due e tre, è semplice. Adesso immagina che c’hai in mano un carico, una scartina e il re di brisca. Tocca a te, che giocheresti?”. “Boh, la scartina”, rispondo. “Bravo Piero, tieni in banca il gruzzoletto, faresti felice la tu mamma. Poi tra un po’ un bell’ammazzo, eh?”. “Grazie nonno”, rispondo, non cogliendo il sarcasmo nelle sue parole. “Ma che grazie, bischero, bada che ti do uno scapellotto. E l’azzardo? Sei appena nato e già cosi fifone. Toh vai, butta un carico, dai!”. ”Toh, vai”, esclamo, buttando la carta. “E io c’ammazzo! Non seguire i consigli, usa la tua testa. Comunque, mai un carico femmina sotto 4 mani. Ascolta tutti ma fai come ti pare, Pierino. Dai, adesso rientro a giocare, domani però, se ti va, ti porto con me al capannone della miniera, ci sono quelli del sindacato, è bene che tu cominci a capì com’è il lavoro nella miniera, e a conosce ‘ste merde della Montecatini”, disse. Annuii.
Le riunioni col sindacato – Sapevo gia quale era il fabbricato che i minatori usavano per le riunioni sindacali. Però noi entrammo dall’ingresso posteriore, e per arrivarci facemmo un giro molto più lungo. Col motorino, si passò davanti al podere delle Venelle, poi percorremmo un lungo sterrato che costeggiava il torrente. Più avanti si guadò il Follonica in un punto che conoscevo bene, per via delle scorribande che noi ragazzetti ci facevamo ogni estate per catturare i pesci che rimanevano intrappolati nelle pozze del torrente in secca. Eravamo armati di retini e fiocine artigianali che costruivamo con le canne di bambù e le coltelle a punta rubate in cucina, che legavamo alla sommità della canna, nella parte più grossa, spaccata a metà per accogliere il manico della coltella. C’era poca acqua, in ogni caso il nonno mi fece rimanere sulla sella per non farmi bagnare le scarpe e spinse il motorino fino al capannone. C’era gia un gruppetto di minatori che fumavano in silenzio. In un quarto d’ora, arrivarono Gigetto, Castania, Leonetto, Spennacchi. Anche tanti altri che non conoscevo, quelli che venivano da fuori, dai paesi intorno a Ribolla. Cominciammo a sederci, mentre qualcuno versava un po’ di vino nei bicchieri. “Vedi Piero, quello alto coi pantaloni marroni è Proietti, l’altro coi baffetti è Astorino. Sono due in gamba, vengono dalla circoscrizione provinciale. Stiamo organizzando lo sciopero con loro, forse si starà un po’ meglio dopo”. Dapprima prese la parola un rappresentante della miniera di Ribolla, Castania, uno che lavorava col nonno. “Compagni, questa è l’ultima riunione che facciamo di nascosto. So benissimo che chi sta qui rischia il posto, ma a sta laggiù, sottoterra, noi si rischia il culo”. Dopo una breve introduzione, bella schietta, passò la parola a proietti. “È l’ora di finirla con questo sistema di lavoro, col cottimo individuale, e l’avanzamento a franamento della volta, cosi si more porca Madonna. Si deve sta uniti e decisi contro la Montecatini, se siamo uniti non possono fare altro che riconosce le nostre ragioni. La prossima settimana ci sarà una riunione generale in cui si deciderà se fa lo sciopero a oltranza oppure no. Spargete la voce a tutti quelli che conoscete. Sarà una vera e propria prova di forza, o noi o loro. Stiamo uniti compagni, stiamo uniti”. All’uscita Giovannino, uno compagno sfegatato, che faceva il carichino, salutò tutti e disse, “Russia, saluta tutti a casa, specialmente BE-NI-TO”, isolando il nome dal resto della frase e alzando un po’ il tono della voce, sillabandolo, come per farlo sentire bene a tutti. “Vaffanculo Giovannino, testa di merda” gli rispose a muso duro. Non ci capii nulla. “Piero, monta su e reggiti a nonno, si va via, sennò ammazzo qualcuno”. Saltai sul sellino posteriore del califfone e invece che tornare indietro per la strada che si era fatto all’andata, si puntò diretti al circolino. “Aspetta qua e non ti muovere”, disse il nonno. Quando uscì dal circolino cantava come un usignolo. “Piero, devi sapé che il tu babbo l’Ho chiamato Benito solo per i pacchi del fascio, solo per questo, non te lo scordare”. “Lo so, babbo me l’ha raccontato”, risposi. Non capii bene allora perché disse questa cosa, io ero piccolo e lui era ubriaco, ma mio nonno non parlava mai a sproposito, neppure quando era imbenzinato. Gli bruciava in petto quella cosa, proprio a lui, il Russia, quella cosa non andava giù. Ma quando nacque mio padre, fu l’anno in cui mia nonna dovette andare a cavare i mattoni dalla fornace per campare i figli, anche mentre era incinta. Per fare la casa si erano indebitati tutti fino al collo. Ed era chiaro che ognuno doveva ingoiare qualcosa di indigesto, “Ma chi se ne frega, Benito, Adolfo, vittorio e vadano tutti a fare in culo”. Gas al motorino e via, al circolino di ribolla a fare il pieno.
La seconda partita – Quella sera di luglio le macchine di arfisi finirono prima del previsto, quindi con mio nonno tornammo al tavolo quando la seconda mano era iniziata da poco. Giocava l’accoppiata pelo col Ermanno il socialista contro il mancino e ivo, il ruspista. “Piero, guarda bene il tu zì Ermanno” mi disse sottovoce il nonno, mentre si stava un po’ in disparte, dietro al tavolo da gioco. Vedi? é furbo come una volpe, sembra che stia li, distratto, a far battute strulle con la su moglie, invece sta contando i punti e sta memorizzando le brische che sono passate”. Alla fine somma i punti sua con quelli che ha contato, i punti del compagno e quelli che c’ha lui in mano, cosi all’ultima mano saprà quali carte c’hanno quell’altri, hai capito?”. “Io non c’ho capito niente”, risposi. “Dai, fatti da un mazzo di carte da nonna in casa, che te lo spiego mentre si gioca”. Nel finale di quella mano disse: “Vedi, te c’hai 7 punti, un re e una donna. È la donna è di brisca, vero?”. “Si” risposi. “Vedi ora vinco facile, bischero”, disse ridacchiando sotto i baffi, mentre guardava di soppiatto la nonna. All’indomani al circolino, sperimentai il sistema del conteggio con Gigetto lo stradino. Da non crederci, funzionava.
La partita di pallone sotto la pioggia – Un pomeriggio dopo mangiato, noi ragazzetti cominciammo a giocare a pallone sotto una pioggia fina, quando con una respinta al volo troppo forte, feci finire la palla al di la del fosso, nel recinto delle pecore di Fine. Lei non si vedeva in giro, quindi scavalcai velocemente il fosso e la rete, presi il pallone e con un calcio lo ributtai di là, ai miei compagni. Poi lo sguardo mi cadde su una farfalla. Era colorata e galleggiava nell’aria. Li di fianco c’era una grossa carriola carica di legna. Presi a spostarla, cosi, senza motivo. Volevo sentirmi più vicino a quelli laggiù, in miniera, faticando un po’, immaginando di fare un lavoro da grandi, oppure chissà, volevo solo che il nonno mi vedesse. Però la carretta era pesante, si rovesciò e, non so come, ci finii sotto. Non respiravo più. Fu cosi che conobbi la magia di Fine. Si avvicinò veloce e, con un gesto simile a quello dei pescatori quando buttano la rete in mare, fece volare via la carretta e tutti i legni. Mi salvò. Da allora fui ancora più diffidente nei suoi confronti, ma quando la vedevo mi si stampava sul viso un sorriso idiota. Lei mi fissava impassibile.
Il vino – Ero abituato a vedere mio nonno che rientrava completamente nero di carbone, dalla testa ai piedi. Impiegava un’ora a tornare allo stato umano, specialmente da quando, invece che tornare direttamente a casa, faceva un salto al circolino. Ogni volta per lui era una scommessa riuscire a ritrovare la strada di casa. Arrivava sempre a trambelloni, quando ce la faceva. Spesso dovevamo andare a cercarlo, percorrendo il tragitto dal circolino a casa, lentamente, guardando con attenzione lungo i lati della strada. Era quasi sempre dentro a un fosso, completamente ubriaco. Una volta lo trovai davanti alla casa di Fine, la maga. Era sotto al ponte dello scolmatore. Era veramente a pezzi. Cercai di sostenerlo facendolo appoggiare sulle mie spalle, ma era difficile, piccolo com’ero. Farfugliava cose senza senso. Nel breve tragitto fino a casa, incontrai Fine, la guardai col mio sorriso idiota, misto all’imbarazzo per mio nonno briaco. Mi disse, “stai attento, il tu nonno oggi è strano, non lo confonde”. Arrivati ormai a casa, mi assestò uno spintone e fu come se si fosse svegliato in quel preciso momento. Parlava lucido e smise di barcollare, “ti ammazzo, ti ammazzo”, cominciò a dire, guardandomi. “Nonno, sono io, Piero, cosi mi fai paura” dissi. Per tutta risposta si tolse la cintola dei pantaloni e cominciò a inseguirmi. Mi salvai solo perché mi arrampicai sul tettino del castro dei maiali, sennò chissà cosa sarebbe successo. Alla fine il nonno crollò, era esausto, più per l’alcool che per la giornata di lavoro. Se ne andò borbottando, tra se e se, parole incomprensibili. “Riposa nonno, domani c’è l’assemblea per lo sciopero”, pensai. Quello più brutto, come dicevano proietti e Astorino. La sera successiva tornammo al capannone per l’assemblea. S’arrivò grossomodo intorno alla fine del turno, il momento in cui i minatori si raccoglievano nella conferenza permanente, cosi la chiamavano, una breve pausa durante la quale discutevano delle questioni sindacali legate alla sicurezza. Gli operai erano ancora a lavoro, allora il nonno tirò fuori di tasca un mazzo di carte e cominciò a distribuire. “Guarda bene, la brisca è come la vita, quando si danno le carte si nasce e ogni volta che si scarta e si pela, qualcosa muore e qualcosa rinasce, e cosi via, morte e rinascita finché non finiscono le carte. Allora si contano i punti. Tutto quello che accade nel mezzo, la partita sai, quella è la vita. Un gli da retta ai preti con sta storia della vita eterna. Dai, ora mescola bene e dai le carte”. Era distratto, si grattava la testa mezza pelata e guardava continuamente la porta d’ingresso del capannone, era visibilmente agitato per la riunione che si preannunciava molto tesa. Di li a poco arrivarono tutti. Interrompemmo la partita. L’assemblea fu, come previsto, nervosa. Tutti volevano prendere la parola. Seppure ci fosse molta rabbia, tutti mantennero un decoro e una dignità che ancora oggi ricordo con particolare calore. Mio nonno era tenuto in grande considerazione nel gruppo. Quando fu il suo turno, parlò a lungo, lo sentii pronunciare anche alcuni dei nomi delle stelle che indicava la sera quando, seduti sul bordo della strada, si prendeva il fresco insieme. Poi concluse dicendo: ”compagni, e ora si vede chi c’ha i peli nel culo”. Un bell’applauso risuonò nel capannone. Io ero ebbro d’orgoglio per mio nonno. Corsi ad abbracciarlo. Stavolta, tornando a casa, non passammo dal circolino, aveva portato con se una sacca con un del pane, una forma intera di pecorino e l’immancabile fiasco di rosso. Ci fermammo direttamente sotto a un olivo. Mise anche la tovaglia, in mio onore, pur avendone un’innata repulsione. “Sai come sarebbe contenta la nonna se ci vedesse ora”, disse con un sorriso beffardo. Tirò fuori il coltello da potino, quello senza punta e cominciò ad affettare il pane e il formaggio. Stappò il fiasco. Prima di ripartire me ne fece assaggiare un bicchiere, forse quella fu la mia prima ciucca. Fu indetto lo sciopero ad oltranza “Fino a quando la Montecatini non avrà accolto tutte le nostre richieste”, dissero quelli del sindacato. Io la mattina successiva entrai in bagno, mi chiusi a chiave e, davanti allo specchio, in una posizione improbabile, osservai con attenzione il mio di dietro. Non vi era traccia alcuna di peli. Mi sentii inadatto allo sciopero. Il giorno seguente lo raccontai al nonno, che scoppiò in una fragorosa risata, di quelle sue, spudorata. Ero rosso di vergogna. Lo sciopero stava affamando tutti. Stavano un po’ meglio i contadine, i muratori e quelli che facevano i mattoni per i muratori, i padroni beninteso, non mia nonna. Gli altri si arrangiavano. Nonno spesso tornava a casa con ricci, istrici, tartarughe e uccelli di ogni genere. Nei periodi più duri, mio padre e mio zio pelo, scaricavano con cura i camioncini della frutta, con una tecnica piuttosto ingegnosa, quanto pericolosa. Quando i camion carichi di frutta partivano dalle aziende, loro due, sul califfone del nonno, si mettevano dietro, senza farsi vedere. Poi mio padre, che era più magro e scattante, saltava su e scaricava veloce la frutta, buttandola di lato nel fosso, alla fine saltava giù dal camion, che ormai aveva preso velocità, rischiando l’osso del collo. Rimontava sul motorino con lo zio e percorrendo all’indietro il tragitto, raccattavano la frutta. Diceva sempre il mi babbo, “vergogna è andà a rubà e tornà senza”. Forse è per questo che loro non si vergognavano di rubare, tornavano sempre con i sacchi pieni.
L’ultima mano – La partita memorabile del 51 poi fini in malo modo. Andarono avanti a giocare fino alle tre di mattina. Addirittura verso mezzanotte accesero anche un fuoco nello slargo davanti casa. Qualche macchina si fermava di tanto in tanto, pensando che c’erano le puttane. Il nonno, dal tavolo, all’ennesima auto che si fermò, con un iniziale ghigno che sfumò velocemente in rabbia, gridò, “andate alle case dei dirigenti della Montecatini, le puttane sono là, andate, sennò vi rincorro col martello”. C’era da credere che l’avrebbe fatto. Cosi quello ripartì con una sgommata, piuttosto impressionato. Più che una partita di brisca, data la lentezza, sembrava giocassero a scacchi. La partita accelerava all’improvviso verso la fine di ogni mano, quando i toni si alzavano, proporzionalmente al numero di fantasiose bestemmie che venivano declamate con inaspettata eleganza e proprietà di linguaggio. Io li sentivo dalla finestra della mia camera che dava proprio sul giardino di casa. In realtà la partita era tra minatori e muratori, mio zio aveva sdirazzato, come si dice da queste parti. Anche il mio babbo stava per cambiare mestiere, voleva fare il manovale. Il lavoro in miniera non era il massimo per un giovane. Ma questo non piaceva al Russia. Lui era uno che resisteva, era stato un partigiano, picchiato più volte dai fascisti, la miniera era una passeggiata per i tipi come lui. Fu così che ad un certo punto, innervosito, anche perché continuava a perdere, ammazzettò le carte e le portò via. La partita fini così. Finì anche lo sciopero, finì male, molto male. I minatori tornarono al lavoro stremati, e la Montecatini attaccò il sindacato, indicandolo come unico responsabile della situazione in cui si trovavano i minatori. “Siamo andati a pelare quelle buone all’ultima mano, ma chi ha dato le carte è stato dispettoso”, ripeteva sempre, specie quand’era briaco. “Giochi una carta, ne peli un’altra, ora c’è una combinazione diversa, Te la giochi nel rapporto tra te e le tre carte che hai in mano e nel rapporto tra di loro, vedi? Fai una scelta, ma sembra che noialtri poveracci la sbagliamo sempre. Comunque non conta chi vince, conta come giochi la partita. Piero he ne dici, ti piace?”, Mi chiedeva, come per avere conferma. “Conta come giochi la partita”, ripetetè poi piano, gettando lo sguardo nel vuoto, con la voce che risuonava come un eco lontana, che risuonava nel petto svuotato. Ma lui non sapeva perdere. Dopo lo sciopero cominciò a fuggire. Ora capisco che lui, forse, era in fuga da sempre. Poi ci fu la strage di Ribolla. Il nonno era di prima gita. Uscì dal Camorra, il buco del culo come lo chiamavano tutti, che era il tocco. Scesero giù, dopo di lui, quelli che morirono. Dopo lo scoppio il nonno tornò al Camorra per aiutare, ma lo rimandarono a casa. Ci voleva gente fresca per le operazioni di soccorso, gli dissero.
Epilogo – Dopo i morti di Ribolla, niente fu più lo stesso. Il nonno, che era un tipo ombroso e taciturno, smise di parlare e di giocare a brisca. Nel gennaio del 1955 fu licenziato perché era iscritto al sindacato. Almeno il Natale passò tranquillo, i padroni della Montecatini erano ferventi cattolici. L’unica cosa che non cambiò, fu il bere. Era sempre sul suo Califfone, quello vinto alla festa dell’unità, a fare viaggi al circolino per riempirsi con il rosso della casa. Una mattina presto, già ubriaco, cadde di motorino e andò a sbattere con la testa su un colonnino di cemento, una di quelle pietre miliari dell’Aurelia. Morì. Andò a pelare le carte buone all’ultima mano, come amava fare, ma trovò solo scartine. Fu la quarantaquattresima vittima di quel 4 maggio. Di quelle, tante, che arrivano dopo, con calma, senza esplosioni, senza clamore. Quando arrivò la notizia dell’incidente, io ero a casa, incidevo con molta cura lo scafo di un modellino di barca a vela che stavo costruendo. Mentre tutti correvano dal nonno, all’ospedale di Grosseto, io rimasi la, a casa, in silenzio, continuando a lavorare a testa china. Doveva apparire strano quel palazzone cosi vuoto e silenzioso, quando di solito, era pieno di gente e di vita. Risuonava, dentro, solo una radio dimenticata accesa. Era l’anno delle olimpiadi, trasmettevano la radiocronaca della maratona. La casa pareva una balena in agonia, che dopo essersi spiaggiata, concertava gli ultimi lamenti. Porte e finestre rimasero aperte, come bocche spalancate, catturate nell’immagine fissa di una fotografia, nell’istante di massimo chiacchiericcio e confusione, che però strideva con il silenzio irreale di quel momento, rotto solo dalla voce dello speaker, che, con enfasi, descriveva la corsa di un maratoneta, in fuga solitaria da più di un’ora. Per un po’ continuai a lavorare alla barchetta, poi, vinto dalla realtà, cominciai a vagare intorno casa in cerca di qualcuno. Ero solo. Avvertii possibile una fulminea, quanto inaspettata, libertà. Vidi una farfalla su un fiore, presi un bastone, la uccisi. Piansi. D’improvviso affiorò nella mia mente l’immagine di quel maratoneta. Mi colpì il suo sguardo, che era come avvolto da qualcosa di oscuro. Mi resi conto che lo sguardo, quegli occhi, erano quelli del nonno. Cominciai a correre. In fin dei conti, minatori e maratoneti, una cosa ce l’hanno in comune, si spingono, entrambi, oltre le possibilità umane di sopportazione. La fatica, la paura, il sudore. Gli occhi dei maratoneti nel momento di maggior sforzo, svelano il fantasma della morte. È un paradosso, sembra quasi che per queste persone, cosi vitali, l’unico modo per riuscire a vivere, sia quello di morire un po’, ogni giorno. Un passo, un colpo di piccone e un passo ancora e avanti così. Il nonno fuggiva dai suoi fantasmi, con il vino e con le puttane. Io correvo, correvo senza voltarmi, anche se qualcuno mi seguiva, ne ero certo. Finii tra le braccia di Fine, la maga, che da lontano aveva assistito a tutta la scena. Mi tenne stretto tra le braccia per tutto il pomeriggio, fino al ritorno dei miei. Ci misi alcuni giorni per realizzare quello che era successo. Il nonno non c’era più. Noi ragazzetti che si abitava nella campagna intorno a Ribolla, dopo la sciagura, diventammo grandi improvvisamente. Per me poi, la morte del nonno s’era portata via il gioco spensierato, compresa la brisca. Poi un giorno passò la banda. La seguii come incantato, c’erano tanti minatori tra i musicanti, compreso il vecchio Castania, quello del sindacato. Somigliava tanto al nonno e suonava la grancassa. Avevo molte domande da fargli. Ma questa, è un’altra storia.
Racconti
Invisibili
Esco di casa, sono le sei del pomeriggio, direzione Grosseto.
Attraverso il mio paese sicuro e invisibile, mascherato da FIAT punto, color carta zucchero. Cintura allacciata e fari accesi, anche di giorno. Unico neo il ciotolio della marmitta dissaldata, che mi rende riconoscibile.
Ma è un attimo, un fastidio momentaneo che i miei compaesani devono sostenere per qualche istante, ma non c’è alternativa dopotutto.
Tutti sono indaffarati a curate la propria invisibilità, ognuno a modo suo.
Ognuno cura l’invisibilità esattamente con l’organo preposto alla scoperta: gli occhi, lo sguardo. È proprio lo sguardo che inquadra, scruta, incasella, e che, alla fine, nasconde.
Una volta stabilito chi o cosa sei, vieni riposto in un luogo imperscrutabile, e li sarai destinato a dimorare, per sempre.
Siamo spesso come dei pianeti che si avvitano su orbite che non si incontreranno mai.
Cellule impazzite che, per paura di un contagio, si evitano, facendo sparire dalla vista ciò che temono.
È così che, decine di nord africani, fuggiti dai loro paesi di origine, e approdati non si sa come nel mio paesino maremmano, si muovono completamente ignorati lungo la stradine limitrofe.
Un gruppetto arriva da sud del paese, un altro da nord e, a piedi o in bici, raggiungono il centro, e li poi, non si sa dove vanno, ne cosa fanno.
C’è chi li vede come formiche o mosche, chi vede solo il pericolo “si cammina a sinistra” e che cavolo. Ma poi si archivia, si smette di vedere, l’occhio fa sparire.
Da dove vengono, che storie raccontano, chi hanno lasciato, se tra di loro si conoscevano già prima di arrivare: a nessuno importa.
Noi sappiamo già tutto di loro, ce lo hanno raccontato in tv.
Ma stasera alle sei e cinque, appena uscito dal mio paesello, procedendo lentamente verso Grosseto, inquadro da lontano un gruppo di tre nordafricani.
Non so perché l’ho fatto, sinceramente, ma proprio nel momento in cui stavo arrivando alla loro altezza, pochi metri prima di incrociarli, alzo la mano nel segno del saluto e la faccio oscillare ripetutamente e a lungo da destra a sinistra.
I tre, all’unisono, con una prontezza che neanche i Berliner Philharmoniker all’epoca in cui erano diretti da Abbado, alzano la mano, tutti e tre la destra, per rispondere al mio saluto.
Un gesto che ha scoperchiato un mondo che stava li, proprio sotto Gli occhi di tutti.
Un mondo che, a differenza del nostro, di noi, che con lo sguardo siamo abituati quotidianamente a nascondere e occultare, ci vede, ci osserva, e contemporaneamente ha bisogno di essere visto.
A differenza di noi, seduti nelle nostre macchinine chiuse e climatizzate, che con lo sguardo escludiamo, ignoriamo, loro ci guardano, e a volte, probabilmente, per delicatezza, evitano di farci sapere cosa pensano di noi.
Testate
Mi sembra giusto, dopo aver realizzato la splendida testata (così si chiama) che si può vedere, sfavillante, in alto nel sito, fare una leggera/minuscola riflessione. (Dovrò pensare ai TAG per questo scrittino). Eh si, perché la testata, una volta era – e lo è tuttora – (solo che adesso rispetto alla stessa c’è una disattenzione che considero puro snobismo culturale) quella parte del letto dove, per forza di cose, si va ad indirizzare la zucca, la chiorba, la crapa, pelata e non, nell’atto di coricarsi. Grande l’attenzione per la testata, ce n’erano in ferro battuto, stile postmoderno, a libreria, quelle con la radio tipiche degli anni 70 (che poi non funzionava mai) e altre a carattere esclusivamente ornamentale – pittorico, alcuni invece mettevano il Che. Comunque la si metta è la parte alta e volitiva del letto; quindi adesso, questo sito neonato, con la sua bella testata, mi fa pensare ad un letto, a molte, molte piazze, svariate piazze. Un bel letto multipiazza dove c’è posto per tanti, per tutti, un luogo infinito, multiforme. E poi, dico, nel letto si dorme, e si sogna, quindi abbiamo a che fare con un sito onirico, un sitonirico, bah, lo scrivo tuttattacato, che rende meglio. Nella prossima puntata scriverò delle “testate”, sempre cose che hanno a che fare con la zucca, la chiorba, la crapa, pelata e non, ma stavolta l’attenzione sarà rivolta ai muri verso i quali, le suddette, sono dirette, e il relativo lavoro per sbrogliare i fili attorcignati della vita nei quali i piedi inciamparono, un dì.
Non è successo niente
Io vedo, vedo tutto – dietro al mio silenzio vedo tutto …
(da un film di Ingmar Bergman)
Uno) Il volto di una donna in primissimo piano (sullo sfondo la vegetazione del lago dell’accesa) la bocca che si contorce languidamente, in preda ad un sottile piacere.
IL CANTO DELLE CICALE E’ FORTE…
STACCO
Da un rubinetto sgorga dell’acqua calda, mani che lavano i piatti, nel primo pomeriggio, dopo pranzo.
LE DUE IMMAGINI SI ALTERNANO, ALCUNE VOLTE.
Fino a che ….
Un piatto cade nel lavandino e si rompe ….
La fonte 1
L’inquadratura scorre lentamente, da sinistra verso destra, va dall’acqua che schizza sulla pietra fino a incontrare La donna che osserva muta e immobile l’acqua. Essa se ne sta in piedi con le mani appoggiate al bordo della vasca, presa di fianco; poi in piano frontale, più stretto.
L’inquadratura scende fino al piano dell’acqua della vasca.
Titolo: NON E’ SUCCESSO NIENTE. Sulla striscia scura dell’acqua.
Scena della famiglia, immobile, in giardino.
L’uomo al centro, scuro in volto, guarda la macchina da presa, le bambine, con una palla vicino ai loro piedi, guardano immobili il papà (come in un quadro) la mamma lavora velocemente a qualcosa dentro alla macchina.
La scena finisce quando la donna si ferma.
(Tutta la scena scorre molto rallentata).
Donna sdraiata a pancia in su.
Guarda le nuvole, e/o le scie chimiche (eventualmente vi fossero).
Le nuvole guardano lei(Varie inquadrature).
Muove ritmicamente i piedi, facendoli ruotare sui talloni.
Nuvole – Lettura, parole quasi incomprensibili, come dette a se stessi, dentro di se.
Spuntano in cielo, all’improvviso;
all’inizio piccole,
un alito di vapore;
Poi sempre più grandi;
Cambiano forma,
qualche capriola (una risata smorzata mentre leggi) e
alla fine scompaiono, silenziose.
Mi fanno da specchio le nuvole,
e da sotto è come guardare me stessa, quando faccio
i miei sogni strani;
Si muovono, si muovono, si muovono, così…,
senza una meta;
Chissà se lo sanno dove andranno a finire, spinte
dal vento e nient’altro;
ogni volta, sembra quasi
di intuire una direzione,
una forma.
Ogni nuvola è tutte le nuvole;
Ogni nuvola è nuvola ovunque;
non come me che posso essere solo una, e
sempre me stessa in un solo corpo;
quando le guardo, le nuvole, in cielo, per
un breve istante, anch’io
posso essere: formica,
elefante, gigante, martello,
oca, balena, valigia, albero…
Per un attimo mi metto fuori, appesa,
ad aspettare la mia nuvola, e
quando la vedo mi trasformerò in essa:
uccello, fiamma, foglia,
onda, pesce, drago;
e sarò salva,
almeno fino a quando anche la mia nuvola,
non scomparirà nel nulla.
Questa scena, con voce recitante fuori campo, termina con un stacco sulla donna che guida e che va a bagnarsi i piedi al fiume.
La fonte 2
La donna carezza il pelo dell’acqua molto dolcemente.
Adesso guarda dentro la vasca.
La fonte – Lettura, parole quasi incomprensibili.
Acqua di fonte, schiocco di scintilla,
che parli mille lingue, e scivoli veloce;
mani e viscere, racchiusa, infinita, nello stesso istante.
Acqua di fonte, che mi contieni,
antico braciere di abbracci senza peso,
e sinuosa, come il serpente che sbuca tra le stoppie.
Il testo continua sull’immagine successiva.
Due) La donna, nello stesso punto del lago dell’Accesa geme tra le braccia di un uomo, l’uomo la tocca ovunque.
L’immagine si è un po’ allargata,
Lei apre le gambe e gode soddisfatta, lasciandosi andare.
Il volto dell’uomo non si vede.
Gatto muore sulla strada – incidente nell’attraversamento.
Sulla parole stacco sulle immagini della strada che scorre fuori dall’automobile.
Poi…
La telecamera è bassa, soggettiva del gatto che scruta la strada per tentare l’attraversamento – Lettura, parole quasi incomprensibili.
Auto che corrono, strisce veloci di luce sull’asfalto.
Lettura…
Il gatto, ormai da molti minuti, osserva la strada, nel punto in cui l’attraversa quasi ogni giorno, più volte al giorno.
Cerca di intuire il momento giusto, ma non è sempre facile, non per un gatto.
Si ferma, guarda, annusa, sbircia a destra e a sinistra con lo stesso sguardo smarrito dei bimbi, ma non è convinto, troppe macchine oggi; e anche se sono le stesse macchine sulle quali si sdraia a riposare nelle sere d’inverno, quando il motore è ancora caldo, lui, non si fida.
Sapesse che è l’ora di punta, proprio il momento in cui c’è maggior traffico, forse andrebbe a fare un giro, a rincorrere qualche farfalla, o una lucertola, oppure se gli va bene, qualche passerotto.
Invece non sa niente di uffici che chiudono, gente che rientra a casa spazientita, la velocità delle auto, l’insofferenza delle code.
Sente bene le zampe oggi, e la sua velocità gli fa credere di essere invulnerabile, imprendibile.
Altre volte attraversa languido, calmo, noncurante, ma stavolta vuole scattare; quel frastuono continuo delle auto lo innervosisce terribilmente.
Si schiaccia a terra, carica allo spasimo le zampe, un ultimo sguardo alla strada, già si immagina di là, oltre le auto che guizzano.
Non possono prendermi.
La fonte 3
Ancora la donna che guarda l’acqua e si sporge sulla vasca.
La donna si lava i capelli, ad occhi chiusi.
Paura del buio – oblio, cecità.
Esco di casa, di sera, tardi.
Premo l’interruttore e il lampo negativo della luce che si spenge, facendomi precipitare nel buio, mi stordisce.
Non vedo più niente, ma quante volte mi è successo, lo so, dopo un po’ gli occhi si abituano.
Allora aspetto, 1, 2, 3, 4 forse 5, interminabili secondi.
Sto ferma con gli occhi spalancati, ma niente, non vedo niente.
Allora impaurita dal buio interminabile, chiudo gli occhi.
“Il buio ad occhi chiusi è una cosa normale”, penso.
Mi tranquillizzo con questo pensiero.
Mi dico “devo contare fino a dieci, ma no, facciamo venti”.
E così conto fino a venti (conta in modo giocoso, divertito, come quando si conta per giocare a nascondino) 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, apro gli occhi.
Niente, niente ancora.
“Dov’è finito il mondo”, mi chiedo, accennando quasi un sorriso.
Ma il volto ritorna subito serio.
Decido di chiudere nuovamente gli occhi, in quel momento è l’unica cosa che riesco a pensare, di nuovo, il pensiero che il buio ad occhi chiusi sia una cosa normale, mi tranquillizza.
Rimango ferma, esattamente nel punto in cui stavo nel momento in cui ho perso la vista.
“Ma no, cosa vado a pensare, non posso aver perso la vista”, apro ancora, gli occhi sono aperti, sono sicuro di averli aperti, ma non cambia niente, tutto è come prima.
Mi siedo.
Dovrebbero esserci le stelle, oramai.
Accendo una sigaretta.
Mi sdraio in terra e mi metto a pancia in su.
La fonte 4
Di nuovo la donna che guarda dentro la vasca per un fugace attimo.
Poi però la donna è nuda dentro la vasca piena d’acqua.
Si dovrebbe riuscire a sommare la figura della donna che si sporge sulla vasca a quella della donna sdraiata dentro la vasca.
La donna fa il bucato – poi va a tendere i panni al filo.
C’è vento, molto vento.
Un vento che porta via ogni cosa – Lettura, parole quasi incomprensibili, lette sorridendo continuamente.
Vento, vento scolpisci le mie mani, solleva
solleva la mia pelle stanca, strappa
strappa da terra il mio corpo, fai
fai che di me non rimanga niente
di ciò che ero.
E di ciò che sarò non pronunciare parola.
Non svelare il segreto, ruba
ruba tutte le mie parole,
leggere come cardellini
Adesso sono solo gusci vuoti
Voglio tornare al mio silenzio dimenticato, sai
sai tu chi sono io
Vento, vento
ma non dirlo mai
Che io già più non sono.
Finale Tre) La donna e il suo amante fanno l’amore, lei sta sopra e l’uomo è seduto per terra con la schiena appoggiata ad un albero.
Simultaneamente, la stessa donna, toglie le scarpe, le sistema ordinate per terra in riva al lago.
Si spoglia completamente lasciando ogni cosa ordinata per terra.
Si lascia addosso solo il suo enorme cappello in testa, e si avvia verso il centro del lago.
L’immagine dei due amanti e quella della donna che si spoglia si alterneranno per un po’ di volte.
Lentamente va giù fino a quando non rimane altro che il cappello a galleggiare sul pelo dell’acqua.
Si vedrà per ultima la tensione dell’orgasmo, subito dopo, il cappello che galleggia nel lago.
L’ULTIMA IMMAGINE – La donna gioca a pallavolo con le figlie.
Mi sono vista nel tuo sguardo mentre cercavo solo quello che non sono, e ho trovanto quello che non credevo di essere.