Esco di casa, sono le sei del pomeriggio, direzione Grosseto.
Attraverso il mio paese sicuro e invisibile, mascherato da FIAT punto, color carta zucchero. Cintura allacciata e fari accesi, anche di giorno. Unico neo il ciotolio della marmitta dissaldata, che mi rende riconoscibile.
Ma è un attimo, un fastidio momentaneo che i miei compaesani devono sostenere per qualche istante, ma non c’è alternativa dopotutto.
Tutti sono indaffarati a curate la propria invisibilità, ognuno a modo suo.
Ognuno cura l’invisibilità esattamente con l’organo preposto alla scoperta: gli occhi, lo sguardo. È proprio lo sguardo che inquadra, scruta, incasella, e che, alla fine, nasconde.
Una volta stabilito chi o cosa sei, vieni riposto in un luogo imperscrutabile, e li sarai destinato a dimorare, per sempre.
Siamo spesso come dei pianeti che si avvitano su orbite che non si incontreranno mai.
Cellule impazzite che, per paura di un contagio, si evitano, facendo sparire dalla vista ciò che temono.
È così che, decine di nord africani, fuggiti dai loro paesi di origine, e approdati non si sa come nel mio paesino maremmano, si muovono completamente ignorati lungo la stradine limitrofe.
Un gruppetto arriva da sud del paese, un altro da nord e, a piedi o in bici, raggiungono il centro, e li poi, non si sa dove vanno, ne cosa fanno.
C’è chi li vede come formiche o mosche, chi vede solo il pericolo “si cammina a sinistra” e che cavolo. Ma poi si archivia, si smette di vedere, l’occhio fa sparire.
Da dove vengono, che storie raccontano, chi hanno lasciato, se tra di loro si conoscevano già prima di arrivare: a nessuno importa.
Noi sappiamo già tutto di loro, ce lo hanno raccontato in tv.
Ma stasera alle sei e cinque, appena uscito dal mio paesello, procedendo lentamente verso Grosseto, inquadro da lontano un gruppo di tre nordafricani.
Non so perché l’ho fatto, sinceramente, ma proprio nel momento in cui stavo arrivando alla loro altezza, pochi metri prima di incrociarli, alzo la mano nel segno del saluto e la faccio oscillare ripetutamente e a lungo da destra a sinistra.
I tre, all’unisono, con una prontezza che neanche i Berliner Philharmoniker all’epoca in cui erano diretti da Abbado, alzano la mano, tutti e tre la destra, per rispondere al mio saluto.
Un gesto che ha scoperchiato un mondo che stava li, proprio sotto Gli occhi di tutti.
Un mondo che, a differenza del nostro, di noi, che con lo sguardo siamo abituati quotidianamente a nascondere e occultare, ci vede, ci osserva, e contemporaneamente ha bisogno di essere visto.
A differenza di noi, seduti nelle nostre macchinine chiuse e climatizzate, che con lo sguardo escludiamo, ignoriamo, loro ci guardano, e a volte, probabilmente, per delicatezza, evitano di farci sapere cosa pensano di noi.