C’ era una volta il suddito di un sovrano potente.
Il suddito temeva ed amava il re: personalmente forse sarebbe stato piccolo ed insignificante, ma essere suddito del re lo faceva sentire sicuro e rispettabile quando incontrava gli stranieri che dalle terre oltre il confine, ogni tanto si spingevano in città.
Il sovrano potente rappresentava per i suoi sudditi il sogno che tutti avrebbero potuto godere delle sue immense ricchezze, se solo avessero seguito i suoi illuminati voleri e, forse, diventare un giorno come lui.
Sfortunatamente il regno si indebolì e i nemici, gli stranieri, attaccando, infiltrandosi, smembrarono il paese.
Il vecchio re morì con il suo regno.
I sudditi, sentendosi persi, spaventati, senza più quel sogno di ricchezza e di stupido benessere infinito, divennero ciechi di rabbia: rabbia verso il re perché se n’ era andato a tradimento lasciandoli soli, con tutti quegli stranieri in giro.
Gli stranieri entrando nel regno rimasero stupefatti nel vedere che gli abitanti avevano preso a errare solitari battendosi il petto e accusandosi dei più gravi crimini.
Ed in effetti come potevano capire che ogni suddito in verità stava picchiando il re che aveva in sé?
Uomini e donne a cui l’identificazione con il padre conferisce presunta protezione contro il mondo dell’ irrazionale.
Una falsa identità contro gli stranieri al di là del fiume.
Corazza caratteriale contenente il caos interno: maschera autorevole che copre un volto sfigurato.
La chiamarono “depressione” e i veri volti neri non erano quelli degli stranieri, ma quelli dei non più sudditi, non più uomini, non più donne che avevano reso brutti come dopo un incendio i propri paesaggi interni, bruciati dal fuoco della rabbia contro il re che aveva infranto il loro stupido sogno di benessere stolido e infinito.