L’immagine riflessa nello specchio e l’originale; il RElefono.

Accade, sempre più spesso, di rimanere incollati al telefonino a guardare immagini che scorrono veloci; una quantità di immagini impressionante, visioni di gruppi di persone apparentemente legati dalla vicinanza fisica, ma uniti realmente solo dall’assenza che si moltiplica nella compresenza dei corpi consegnati all’ignoto. Facebook, Google, instagram, tutti i vari portali di vendita on line, youtube etc. etc. etc.. Tutte immagini sulle quali ci soffermiamo soltanto per qualche istante, siamo abituati alla velocità; riusciamo a valutare tutto ciò che osserviamo ad una velocità sorprendente, e la velocità cresce sempre più vorticosamente. Ne deriva una quantità di immagini sempre maggiore, gesti bulimici, inconsapevoli, che non affaticano lo stomaco ma la mente; una mente che è sempre più incapace di immaginare vista la super fruizione di immagini altrui. Poi all’improvviso, per una strana angolazione del telefonino, oppure una voce che ci distrae richiamando la nostra attenzione altrove, per qualche secondo, lo schermo va in stand by, diventa nero per una questione di risparmio energetico. Allora quando riprendiamo il contatto col telefono, per un attimo, ci vediamo riflessi nello schermo che ci fa da specchio, ma quell’immagine la rifuggiamo, non la riconosciamo più e ci disturba, a volte, vederci nello schermo. Il volto è sempre inadeguato, mai abbastanza levigato, mai abbastanza pulito, mai abbastanza perfetto il trucco o la cura della barba; è sempre tutto così distante dalle immagini che siamo abituati a vedere scorrendo quelle nel telefono. Ci sbrighiamo allora a riavviare il cellulare per riprendere la visione di qualcosa che ci somiglia ancor più di quello che vedevamo riflesso nello schermo nero del telefono. Probabilmente quelle cose che osserviamo nella rete parlano di noi meglio di noi stessi. Siamo diventati quelle cose e non c’è più differenza tra il fuori e il dentro, di noi. La realtà esterna coincide con quella interna, e se quella interna rappresenta anche la nostra umanità, non stupisce assistere alla valutazione degli esseri umani solo in termini economici; siamo visibili esclusivamente in termini di produttività, ovvero di quanto riusciamo a soddisfare il mondo delle transazioni economiche, seppur minuscole o mastodontiche che siano. La rete, la tecnica, sono la nuova forma del mondo, quindi spesso, inconsciamente, non rimane altro da fare che assoggettarsi a questa nuova forma, così che l’unica forma possibile dell’uomo è quella in cui egli diventa funzionale a tale forma. La tecnica come fine, non più come mezzo. Non riconosciamo più il nostro volto perché probabilmente è ancora troppo umano, almeno rispetto al volto che, noi stessi, pian piano costruiamo dentro di noi, abbandonandoci sempre più come individui, avvalorandoci sempre più come gregge.

 

 

Confini

                                       Edoardo Tresoldi, Pueblo, Siena, 2015

Confini …

Vicinanza o lontananza,

                            prossimità o divisione …

Limiti…

            Visibili?

                         Invisibili?

Percepiti, ignorati, violati, penetrati,

                                                                 rigidi o labili, mobili …                                       

                 o statici,

permeabili,

                                 invalicabili, imposti, scelti, larghi, stretti …

Barriera o contatto?

Ogni confine è un rapporto, anche quando si erigono muri, perché i confini sono il contorno della nostra forma, il rivestimento del nostro essere, che ci mette in contatto con “l’esterno”…

Sono una domanda, che inesorabile continua ad interpellarci, anche quando la ignoriamo.

Una domanda aperta sulla propria identità e sull’identità dell’altro, individuo o popolo,

straniero,

cioè esterno, appunto,

fuori dai nostri confini;

… Perché ognuno di noi ci sta dentro, vive dentro a confini mutevoli e vivi ed è in contatto con i confini altrettanto mutevoli e vivi dell’altro: la propria pelle, i propri pensieri, la propria casa, la propria città, la propria cerchia, i propri riferimenti, il proprio paese…

Ognuno di noi si è sentito accarezzato o schiaffeggiato, si è reso invalicabile ed ha sofferto di fronte all’invalicabilità altrui, si è fatto labile e si è lasciato violare, è stato costretto dentro confini non suoi, ha lui stesso violato per necessità o distrazione o prepotenza – altra faccia della necessità – è stato permeabile ed è stato penetrato, fecondato … ognuno di noi ha conosciuto la propria e l’altrui rigidità…

Ma spesso è difficile mettersi nei panni dell’altro…

Gli esterni confinanti, gli stranieri, ci provocano con la loro domanda su chi siamo, su cosa vogliamo e su cosa vogliamo diventare; il loro movimento verso o “contro” di noi è come quello di una matita, che ripassa le parti del nostro limite cieco, rivelando una forma fino a quel momento ignorata. Ed è qualcosa di reciproco. Possiamo osteggiare indifferenza, paura e imporre barriere, ma siamo in contatto e la matita si muove…

Edoardo Tresoldi, una delle Gabbie

Credo, però, che venga sempre il momento nella nostra storia personale o collettiva – avviene sempre, la storia insegna – per uscire dai cortocircuiti delle negazioni, fonte di tante sofferenze, fonte di guerre e discriminazioni. Viene sempre il momento o l’occasione, per imparare a fronteggiare l’attrazione e la repulsione, il disorientamento e il desiderio di fuga, lo spaesamento fino allo scandalo, il fascino o l’incanto che proviamo di fronte all’esterno, al diverso, allo straniero, all’altro, che, volenti o meno, traccia la parte invisibile del nostro contorno; credo che ci sia sempre l’opportunità per rendere i nostri confini, totalmente o in parte, permeabili e penetrabili, lasciandoci fecondare dall’altro nella disponibilità di una reciproca trasformazione.

Bansky, striscia di Gaza

Nell’impazienza che oggi ci caratterizza, nella dimensione del tutto e subito, la sfida più grande, forse, è il rispetto dei tempi – per lo più lunghi – nostri e altrui, necessari per riconoscere e riconoscersi.

Non possono esserci risposte immediate, ma solo una promessa di compimento, attraverso la costruzione intenzionale, lenta, continua e creativa, feconda e arresa di una storia che non è più “la mia” o “la tua”, ma “la nostra”, all’interno di confini permeabili e mobili.

Debora Corridori

 

 

Prologo ai re: un bambino che parla

La comparsa del linguaggio nel bambino segna il momento in cui la complessità della realtà esterna e quella dell’ altro si incontrano e creano immagini completamente nuove.
Un bambino che parla crea le sensazioni e i desideri mentre li esprime, affina i bisogni e li distingue via via dalle esigenze di crescita.
Un bambino che parla ha avuto modo di imparare l’ alternanza suono-silenzio e impara ad ascoltare, quindi a decentrarsi.
Un bambino che parla supera il narcisismo del lattante senso-motorio, che esplora con il corpo e con la bocca, fase importantissima ,ma che va superata attraverso la comparsa dell’ empatia: mi metto nei tuoi panni perché con le parole mi parli della tua storia di gioco, mi apri un varco verso la tua fantasia, mi poni un confine e mi esprimi un dolore.
Un bambino che parla non usa più la struttura ripetitiva del sottrarre il giocattolo o del gioco esplorativo solitario: gioca con l’ altro a “fare finta” e un ramoscello diventa un telefono in cui le parole diventano una musica verso un uditorio che non si vede.
I bambini che parlano sono irrimediabilmente tutti diversi e sfidano gli adulti a rapportarsi con queste complesse differenze, a creare loro dei contenitori ricchi di stimoli, ma anche di confini, dove le identità si sviluppino ma non si confondano, per costruirsi adulti creativi, permeabili e non rigidi, che sapranno sempre che fuori da sé non c’è niente di uguale a noi, ma sempre somigliante.

Il re che non voleva sentir piangere (il regno silenzioso di senzalacrime)

C’era una volta un castello in un giardino immenso e perfetto che stava in mezzo al Regno Silenzioso di Senzalacrime.
Le siepi e i vialetti del giardino del re erano così curati, che ogni sassolino se ne stava al suo posto grazie al continuo intervento dei giardinieri reali.
In quel regno la Compagnia dei Giardinieri era importantissima.
Se ne poteva far parte a condizione di non piangere mai, a condizione di non versare mai una lacrima: anche solo un cenno di pianto poteva costare l’espulsione immediata dalla Compagnia e dal Regno Silenzioso di Senzalacrime. In quel regno, infatti, era stato bandito il pianto, era stata ridotta al silenzio la sofferenza e la commozione, si poteva star male, ma senza un lamento.
Nel regno sovrastava il silenzio: ogni dignitario, ogni abitante, ogni bambino o donna che fosse, doveva controllare e controllarsi fino al punto di non mostrare quasi niente attraverso il volto. Sguardi duri e sfuggenti che si incontravano ormai poco e solo per dovere; i saluti erano rari; i bambini non nascevano più, perché tra i giovani non usava più scambiarsi sorrisi e sguardi. Perfino i cuochi e le cuoche avevano cambiato le loro ricette, per non tagliare le cipolle!
Tutti sembravano uguali, grigi e ingobbiti, uomini, donne, vecchi e i pochi bambini rimasti.
I mastri giardinieri giravano ormai per il Regno Silenzioso di Senzalacrime con lo scopo di verificare che il silenzio e l’ordine regnassero, per riferirlo al Re.
Il Re… il Re Che Non Voleva Sentir Piangere era un uomo alto e magro e le rughe cominciavano a ricoprire il suo volto asciutto con occhi così penetranti, che se lo guardavi … ti veniva da piangere.
Chissà perché si era indurito a tal punto? Ormai la domanda si era persa nel tempo e ogni suddito pensava che non fosse conveniente cercare di dare una risposta, perciò si preoccupava solo di non disturbarlo.

A-Cuir era uno dei giardinieri fra gli ultimi nella gerarchia della celebre ed importantissima Compagnia dei Giardinieri, ma, nonostante ciò, gli era permesso di avere contatti con l’esterno del Regno Silenzioso di Senzalacrime, per il rifornimento di fiori, una volta all’anno. Fuori non doveva parlare e doveva portare in testa una cappa gialla; avrebbe mostrato la lista dei fiori al capo-serra, che conosceva da sempre, e quello gli avrebbe riempito di fiori il carro.
Una di quelle volte, il capo-serra era ammalato e fu la figlia Rosa a servire A-Cuir: al solo sentir la sua voce soave, se ne innamorò.
La loro storia andò avanti in gran segreto e in segreto si sposarono.
A-Cuir portò la ragazza con sé nella sua casupola da ultimo giardiniere, ai confini del regno.
Da lì ad avere una bambina il passo fu breve; si può capire, però, che in un regno dove sia proibito piangere, crescere un bambino sia pressoché impossibile, così A-Cuir cercò di  isolare la casetta con cortecce di querce sughere, mentre la mamma osservava continuamente le smorfie di Allegra, la neonata, per distrarla dal pianto.
Un giorno come tanti, la moglie di A-Cuir si era addormentata, per via di una notte insonne dedita a controllare la bambina e, mentre lui lavorava alle siepi centrali dove erano cadute molte foglie, la bambina cominciò a piangere …
In quell’indisturbato, immobile, solenne silenzio, il leggero vagito parve una lama, che riuscì a penetrare l’aria fino alle orecchie reali, così sensibili, abituate ormai solo al leggero fruscio delle foglie e al lento scorrere dei ruscelli là intorno.
–         Guardie! Giardinieri reali! Correte! Prendete e portate qui l’ingrato che si permette di offendere quest’oasi di pace! –
Gli uccellini, a cui per tanti anni era stato impedito di nidificare, e le api, che non lavoravano il miele in quel regno silenzioso, si spostarono a frotte dietro ai giardinieri,  per curiosare un po’. Anche A-Cuir aveva sentito il vagito e si era messo a correre come un pazzo, nell’estremo tentativo di salvare la sua bambina, ma i giardinieri erano già lì quando lui arrivò, schierati e immobili di fronte alla piccola e alla madre, che tutto quel trambusto non era riuscita a svegliare.
A-Cuir era sul punto di afferrare una delle guardie per il collo, quando la piccola smise di piangere. Guardò attentamente ad una ad una quelle strane facce, quegli strani figuri inespressivi e grigi in fila davanti a lei. Forse le sembrarono pupazzi, forse le parvero ridicoli, non si può mai sapere cosa passa per la testa di un bambino; fatto sta che cominciò a ridere, con una risatina grassa e fitta, interrotta a tratti da qualche attimo di silenzio, in cui con gli occhi lacrimosi e vivi passava di nuovo in rassegna quelle figure, che a lei sembravano così buffe. Rideva, rideva con le lacrime ed occhi luccicanti, rideva di un riso contagioso, contagiosissimo …
Inizialmente tutti rimasero attoniti: il babbo, che si fermò, bloccato con le mani aperte, per afferrare il collo di una guardia, la mamma che si era svegliata atterrita e le guardie, sulle cui facce inespressive spuntò un’insolita aria di sorpresa.
Fu allora che uno dei giardinieri presenti incrociò per sbaglio lo sguardo di una guardia e … sbruffò in una risata fragorosa e sgangherata.
A lui ne seguì un altro e un altro ancora: ridevano e mentre ridevano cominciarono anche a piangere tutte le lacrime che non avevano pianto.
Alcune guardie, quelle rimaste serie, si precipitarono sulle altre arrabbiatissime: che avrebbe detto e fatto il Re quando lo avesse saputo? Ma quelli se la diedero a gambe. A-Cuir, Rosa con la figlia Allegra tra le braccia, si strinsero in un abbraccio, mentre cercavano di scorgere tra le cortecce di quercia, ciò che stava succedendo, ma non riuscendo a vedere bene, A-Cuir uscì e liberò la finestra della sua casupola da ultimo giardiniere, ai confini del regno, per godersi lo spettacolo.
Le guardie e i giardinieri in fuga, correvano per il giardino reale spargendo ovunque le loro lacrime, le guardie, quelle serie, le inseguivano, ma ogni tanto se ne perdeva una, che si metteva a ridere o a piangere o a ridere e a piangere insieme.
Intanto gli uccellini contenti cinguettavano sonoramente e avevano iniziato a fare il nido, in questo inaspettato vento nuovo e anche le api già ronzavano intorno ai fiori.
Il Re Che Non Voleva Sentir Piangere, pietrificato guardava dalla finestra più alta del suo castello quel deplorevole spettacolo, quando preso da una rabbia incontenibile, decise di armarsi a dovere e andare in giardino, per prendere in mano la situazione.

Uscì dal castello a cavallo, con l’armatura, la spada e la lancia. Ormai non c’era più un giardiniere o una guardia che non piangesse o ridesse fino alle lacrime. Il Re si lanciò come un fulmine contro i sudditi disobbedienti, che al vederlo così iracondo e armato, cominciarono a correre, tutti nella stessa direzione, verso il cancello del regno, che qualcuno nel frattempo aveva aperto. Il Re, senza accorgersene, sempre correndo, cieco di rabbia, varcò il confine. Tutti rientrarono in se stessi quando videro il destriero allontanarsi. Si guardarono e si sentirono sollevati, liberati e felici. Da allora nel Fu Regno Silenzioso di Senzalacrime tutti si sentirono liberi di piangere quando stavano male e di ridere quando erano felici, di stare zitti o di parlare, di gridare e di cantare. Dove erano state sparse le prime nuove lacrime del Fu Regno Silenzioso di Senzalacrime, cominciarono a spuntare spontaneamente fiori meravigliosi e non fu più necessario acquistarne altrove, per colorare il giardino intorno al castello. Da allora il cancello del Fu Regno Silenzioso di Senzalacrime rimase aperto.
E il Re? Il Re corse ancora e ancora e ancora intorno al mondo, convinto di poter soffocare con la forza il pianto e col pianto il riso e tutto ciò che sta nel mezzo. Ma alla fine dell’ennesimo giro si fermò e scoppiò in un pianto a dirotto, talmente accorato, che fece piangere anche il cavallo. Le sue lacrime inondarono la valle e formarono un lago, visibile all’alba e al tramonto dalla più alta finestra del castello del Fu Regno Silenzioso di Senzalacrime.

Un altro re

C’ era una volta il suddito di un sovrano potente.
Il suddito temeva ed amava il re: personalmente forse sarebbe stato piccolo ed insignificante, ma essere suddito del re lo faceva sentire sicuro e rispettabile quando incontrava gli stranieri che dalle terre oltre il confine, ogni tanto si spingevano in città.
Il sovrano potente rappresentava per i suoi sudditi il sogno che tutti avrebbero potuto godere delle sue immense ricchezze, se solo avessero seguito i suoi illuminati voleri e, forse, diventare un giorno come lui.
Sfortunatamente il regno si indebolì e i nemici, gli stranieri, attaccando, infiltrandosi, smembrarono il paese.
Il vecchio re morì con il suo regno.
I sudditi, sentendosi persi, spaventati, senza più quel sogno di ricchezza e di stupido benessere infinito, divennero ciechi di rabbia: rabbia verso il re perché se n’ era andato a tradimento lasciandoli soli, con tutti quegli stranieri in giro.
Gli stranieri entrando nel regno rimasero stupefatti nel vedere che gli abitanti avevano preso a errare solitari battendosi il petto e accusandosi dei più gravi crimini.
Ed in effetti come potevano capire che ogni suddito in verità stava picchiando il re che aveva in sé?
Uomini e donne a cui l’identificazione con il padre conferisce presunta protezione contro il mondo dell’ irrazionale.
Una falsa identità contro gli stranieri al di là del fiume.
Corazza caratteriale contenente il caos interno: maschera autorevole che copre un volto sfigurato.
La chiamarono “depressione” e i veri volti neri non erano quelli degli stranieri, ma quelli dei non più sudditi, non più uomini, non più donne che avevano reso brutti come dopo un incendio i propri paesaggi interni, bruciati dal fuoco della rabbia contro il re che aveva infranto il loro stupido sogno di benessere stolido e infinito.

Il Re muto

Un giovane re, all’età di 24 anni, perse la parola.
Egli governava uno staterello, lontano, sperduto, quasi misterioso, che stava in un puntino piccino piccino della carta geografica, lungo l’estesa linea di confine tra il continente europeo e quello asiatico: si chiamava SIMILA’.
Al momento non si riuscì a capire perché avvenne, fatto sta che, da un giorno all’altro, il Re finì di favellare.
Oh Mamma mia, ma che sconforto, tutti i suoi sudditi si intristirono. “Aveva una così bella voce”, “si, si, si, che bella voce che aveva”, pensarono in molti.
Ovviamente il Re non parlava, è vero, in compenso pensava molto, ma questo il suo popolo non lo sapeva dato che, lui, non poteva più dirlo a nessuno.
Quello che in verità nessuno conosceva o poteva immaginare è il motivo per cui il Re non volle più saperne di pronunziare parola.
L’apparato fonatorio del reale, diciamo così, era in splendida forma, semplicemente, egli, si stancò di parlare. Tutti parlavano, ma senza dire alcunché di significativo e, soprattutto, nessuno sapeva più ascoltare; erano tutti come sordi, incapaci di comprendere veramente l’altro da se. Svanita era ogni capacità di capire il mondo altrui. Ormai la parola aveva perso ogni significato. E cosi le parole non dicevano, anche se, a dire il vero, neppure il silenzio silenziava, infatti pur non pronunciando alcuna parola, i pensieri affollavano la mente del Re, come innumerevoli e pesanti locomotive, che a volte scorrono lente, e altre volte sbuffano a tutto vapore.
Scoprì che riusciva a sentire il silenzio solo con certi suoni della natura e che, ad esempio, piccoli gruppi di uccelli, al crepuscolo, che cinguettavano gli davano pace, così come il mare, il vento tra le fronde degli alberi, oppure le lingue sconosciute, esotiche.
Ma più di ogni altra cosa, la musica; il Re sosteneva che per fare il vero silenzio ci voleva la musica.
 
 
Passò del tempo e il Re incominciò a circondarsi di musicisti, ne infilò in gran quantità in ogni stanza.
Per un certo periodo il giovane imperatore, mantenendo fede al suo impegno, e dovendo comunicare con i suoi sudditi, la servitù, i consiglieri di corte, e chiunque altro, si servì di piccoli bigliettini che imparò a scrivere velocemente, ma ben presto scoprì le potenzialità di un altro mezzo molto potente, molto interessante.
Insomma, far silenzio, tacere, non profferire parola, o come dir si voglia, questo aveva portato molte idee al Re; inoltre, egli, aveva imparato soprattutto ad ascoltare.
Beh insomma, il mezzo potente e importante, la grande intuizione del giovane Re, era la musica; ed egli cominciò a comunicare con il prossimo solo attraverso i suoni.
Accadde una sera, durante una delle numerose, e un po’ noiose, feste di corte, a cui il Re presenziava silenzioso come al solito.
Tra gli invitati c’era una ragazza molto graziosa, e il Re ne fu immediatamente colpito.
Di getto si diresse verso di lei per dirle (…) oh, mah oh, mmh, per dirle cosa? Si ricordò che egli aveva deciso di non parlare più con anima viva.
E poi cosa avrebbe potuto dire?, quello che egli provava per quella ragazza non aveva parole.
Si chiese, allora, tra se e se, “come posso dire una cosa indicibile come il miscuglio di sentimenti che mi sta tormentando il cuore?”.
Tornato sui suoi passi, si sedette sul trono, e cominciò a canticchiare e a fischiettare, e si rese conto, che quella melodia raccontava tutto quello che avrebbe voluto dire alla ragazza.
Si avvicinò ai suoi musicisti e affidò loro la melodia che aveva canticchiato e fischiettato un momento prima.
Oh, beh, concorderete che canticchiare non è parlare, anche se, per cantare, si utilizzano la stessa bocca, le stesse corde vocali che si usano per parlare; quando si canta, però, non c’è un pensiero logico, non c’è un significato; il Re scoprì che la musica non aveva nessun senso, come quello che provava per la ragazza, e questo lo rincuorò molto.
 
 
Da quel momento in poi, a corte, ma non solo, fu tutto un fiorire di melodie e armonie; velocemente lo studio della musica si diffuse in tutta la regione.
Il Re cominciò a comunicare solo con i suoni, utilizzando, attraverso i suoi musicisti, intervalli stretti, ampi, dissonanze stridenti e più morbide, consonanze vacillanti o solide come la roccia. E poi le armonie, cosi ricche, che potevano contenere anche suoni in completo e totale disaccordo tra di loro.
Armonie in disaccordo?
Beh certo, solo nelle armonie musicali possono esservi suoni in completo disaccordo; infatti, tra le persone, si dice che esse sono in accordo solo quando tutti la pensano nello stesso modo.
Com’era ovvio tra il Re e la ragazza sbocciò l’amore, che si dispiegò come una musica libera, improvvisata, e di li a poco convolarono a nozze. La cerimonia nuziale, a differenza del solito, fu celebrata da un maestro concertatore, che diresse con la bacchetta da grand’orchestra: sposi, testimoni di nozze, parenti e tutto il resto. L’unica cosa che non cambiò rispetto ai soliti usi, furono i cori, a bocca chiusa, degli invitati, già alticci.
 
 
Ogni qualvolta che il Re voleva esprimere un sentimento si appartava con i musicisti e cominciava a cantare una melodia, e i musicisti cominciavano a predisporre gli intervalli e le armonizzazioni che più si avvicinavano all’idea melodica del Re.
Velocemente questa modalità espressiva si diffuse ovunque nel piccolo regno e tutti cominciarono a comunicare con i suoni; in ogni villaggio, nelle campagne più sperdute, fu tutto un fiorire di melodie che passeggiavano, lavoravano, studiavano, viaggiavano.
Se ti capitava di passare per il regno di SIMILA’ a quell’epoca, avreste potuto sentire un’infinità di melodie che risuonavano una accanto all’altra, e che sovrapponendosi formavano armonie libere, come infiniti gruppi musicali che suonano uno accanto all’altro, in un caos apparente, ma dove, in realtà, ogni tema si nutriva dell’altro, vicendevolmente, e la sensazione era di bellezza moltiplicata all’infinito.
Come tutti i sentimenti e gli affetti riescono ad assumere infinite sfumature e gradazioni, così anche le melodie erano iridescenti, libere.
Inimmaginabile la forza di questo modo di comunicare, e tale era l’idea di libertà che essa donava che, ben presto, si sviluppò in tutto il mondo.
 
 
Ma appena fuori dai confini del piccolo regno di SIMILA’, a qualcuno, questa libertà cominciò a non piacere, e in molti iniziarono a fissare sulla carta delle melodie che, a dir loro, meglio esprimevano i sentimenti, e invece che lasciar libere le persone di inventare nuove melodie, imposero a tutti i loro canti, alquanto banali.
Quel che veramente stupì gli abitanti del regno di SIMILA’ fu che, con l’andare del tempo, le persone, con molta facilità, per esprimere i loro sentimenti utilizzassero partiture sempre uguali, che reperivano nei supermercati delle melodie, negli uffici delle melodie, nelle banche delle melodie, come ad affermare che ci potessero essere  due sguardi uguali, due sorrisi uguali, due identici modi di toccare e di abbracciarsi, e così via. Fu così che, senza averne piena consapevolezza, le persone, utilizzando sempre più melodie simili, se non proprio uguali, si impoverirono, preferendo la comodità di utilizzare melodie, melodie, melodie. Melodie altrui.
 
 
Avevano una grande paura quelle povere persone, la paura di dover sentire i loro affetti, forse, oppure invidia per gli affetti altrui, e di quelle qualità che, probabilmente, loro stessi, non si riconoscevano; o chissà, per motivi commerciali. Fu così che le persone cominciarono ad affidarsi alle melodie che si trovavano sul mercato, invece che creare loro stessi quelle che gli appartenevano.
Anche nelle scuole fu così. Agli alunni venivano insegnate solo le frasi musicali che ormai erano entrate nell’uso standardizzato, e in certi disperati casi, avevano anche l’arrogante convinzione di poter spiegare agli alunni il preciso significato di quelle composizioni musicali; e così la potenza liberatoria delle melodie del regno di SIMILA’, venne completamente disattesa e il suo messaggio radicalmente sovvertito. Distrutto.
 
 
Fu tale l’offesa che il Re, si chiuse in se stesso, smise anche di cantare; l’unica forma di comunicazione fu per lui esclusivamente l’ascolto; la cosa si estese anche ai suoi sudditi.
Anche la moglie fu presa dallo sconforto, e un giorno accadde addirittura che qualche breve parola ricominciasse a riaffiorare dalla sua delicata bocca.
Tuttavia quelle poche parole più che un significato continuavano a specchiare l’animo dolce della donna, assomigliando ancor più ad un canto, ma ciò nonostante, il vecchio imperatore, intimorito dall’accaduto, promulgò un editto, secondo cui, d’accordo con la sua gente e la consorte, il regno di SIMILA’ non esisteva più; pertanto, di questo paese, oggi non v’è più traccia, ne sulle cartine geografiche, ne sui libri di storia. Quel popolo si salutò, semplicemente, come quando si scioglie una compagnia teatrale, e il Re chiese a tutti di emigrare, in un perenne vagabondaggio, per donare, a tutti, il loro sentire.