Tra i tanti effetti “emotivi” del coronavirus ce ne sono 2, tra loro antitetici su cui riflettere:
1. Ampiamente enfatizzato e anche cercato, voluto, incentivato è il fatto che la ridotta mobilità e l’impossibilità a uscire ed impegnarsi in altre attività fa ritrovare uno “spirito di gruppo”, sia esso familiare o di ogni altro gruppo di cui si è e ci si sente parte, fosse solo anche quello dei malati, che fa ritrovare amore, amicizia, solidarietà, vicinanza, tutti valori positivi, che supportano, aiutano e fanno superare con più facilità le inevitabili difficoltà pratiche e\o economiche che si determinano.
2. L’altra è il suo esatto contrario: la situazione di chi è solo e vede chiudersi le proprie possibilità di contatto, se non virtuale, con le persone con cui normalmente interagisce aumentando così a dismisura la sensazione di solitudine, che diventa qualcosa di più di una semplice sensazione, diventa una realtà! Di questa situazione non c’è traccia in nessuna dichiarazione pubblica, non fa parte della discussione in nessun dibattito è semplicemente ignorata.
Eppure i sociologi ci insegnano che è una situazione sempre più comune, specie nelle grandi città, e quindi mi domando: perché questa sottovalutazione?
È come se, di fronte alla difficoltà, in questo caso la pandemia, ma credo sia valida anche per altre cose, assumesse valore solo ciò che rientra nella “normalità”: la famiglia, il gruppo di appartenenza ecc. ecc. e chi è fuori da queste appartenenze sia da escludere…. un nuovo “diverso”.
Il collega, l’amico, il vicino solo, che fino ad ieri magari invidiavamo per la sua libertà, diventa un escluso da tenere a distanza…. di cui è bene non parlare neanche, un nemico che può portare il male nel nostro gruppo. Altrimenti perché non parlare neppure della condizione di solitudine in cui essi, i soli, si ritrovano a vivere?
Enzo Celotto