Un libro e un film: una trasformazione possibile

Voci come rumori, si sovrappongono come le emozioni incontrollate che esse generano nel cuore delle persone: paura, concitazione, ostilità… Non è la comunicazione di una realtà esterna o psichica che sia, ma la sua deformazione, strumentalizzata per chissà quale fine, sempre disumano e disumanizzante.

Mi colpisce la frase di un libro appena letto, “5 cose che tutti dovremmo sapere sull’immigrazione (e una da fare)”, frase che è un noto teorema della sociologia: “Se una cosa è percepita come reale sarà reale nelle sue conseguenze”e quindi temo gli effetti del falso spacciato per vero, il pericolo dei pregiudizi… La questione dell’immigrazione che riempie bocche e orecchi, quella che è gridata, mi pare, sempre di più, una malevola deformazione del vero.

Stefano Allievi, l’autore di quel libro, in cui mi sono imbattuta per caso, dati alla mano, offre uno sguardo oggettivo e nello stesso tempo pieno di passione e premura sul fenomeno dall’immigrazione; un punto di vista non schierato e perciò illuminante. Mi colpisce per esempio l’inserimento dei movimenti migratori dal sud del mondo nel movimento più vasto di tutti i movimenti migratori odierni e passati, perché i movimenti migratori hanno sempre caratterizzato l’umanità e l’uomo nasce nomade… Mi colpisce l’evidenza di un’integrazione in atto, con svariate situazioni, in cui la convivenza porta effetti benefici per tutti… Mi piace l’essere propositivi. Mi piace la constatazione che ci sono difficoltà, ma anche la certezza dell’esistenza di più strade per superarle, insieme. Questo non fa notizia… Mi chiedo perché… affinché per esempio l’esperienza di Riace venisse alla ribalta, ci è voluto l’arresto del sindaco Lucano. Il film Un paese di Calabria è, come il libro e i libri di Allievi, una luce su fatti e persone, su noi stessi, dando respiro. Tanta poesia, realtà, verità e bellezza nello stesso momento… la bellezza più grande, che non è quella dei luoghi, magnifici, di quel pezzo di Calabria, ma quella della gente, che nella semplicità e senza pretese o polemiche accoglie o che nella semplicità e con arrendevolezza si lascia accogliere. La vera bellezza è quella di una comunità che rinasce, perché si fa permeabile e rende permeabile chi arriva, abbassa le difese e consente di abbassarle; una comunità che è capace di trasformare torri d’avorio morte e rafferme, in luoghi d’accoglienza e di vita, che semplicemente offre se stessa e offrendosi riconosce l’altro e si riconosce… Anche gli orrori vissuti dai migranti durante il loro viaggio trovano come il modo di essere “attutiti” in un abbraccio, in un racconto, nella bellezza della normalità e della consuetudine… Tutto questo commuove, dà speranza, allarga gli orizzonti del cuore e della mente. La realtà bella, anche nella sua fatica, è quella di chi guarda, crede e agisce, si trasforma e trasforma uccidendo la sfiducia e la menzogna di essere isolati, impotenti e minacciati.Sguardi e azioni che cambiano la realtà, regalano la concreta possibilità di una trasformazione.

Debora Corridori

Il cielo è di tutti – Gianni Rodari

Qualcuno che la sa lunga

mi spieghi questo mistero:

il cielo è di tutti gli occhi,

di ogni occhio è il cielo intero.

 

E’ mio, quando lo guardo,

è del vecchio e del bambino,

del re e dell’ortolano,

del poeta e dello spazzino.

 

Non c’è povero tanto povero,

che non ne sia il padrone,

il coniglio spaurito

ne ha quanto il leone.

 

Il cielo è di tutti gli occhi,

ed ogni occhio se vuole

si prende la luna intera,

le stelle comete, il sole.

 

Ogni occhio si prende ogni cosa

e non manca mai niente:

chi guarda il cielo per ultimo

non lo trova meno splendente.

 

Spiegatemi voi dunque,

in prosa o in versetti

perché il cielo è uno solo

e la terra è tutta a pezzetti.

L’ arroganza dell’ isolamento

L’ arroganza dell’ isolamento

Stephen Hawking

 

Non da molto ci ha lasciati Stephen Hawking, un genio, un uomo con una libertà di pensiero, ironia e leggerezza, che parevano sbeffeggiare la malattia che aveva reso il suo corpo un peso.

Parlava della sua vita di fisico teorico a Cambridge come una esistenza privilegiata, ma con la sensazione di vivere in una torre d’ avorio sempre più alta.

Diceva con la “non sua” emozionante voce metallica: “Le vite delle persone più ricche nelle parti più prospere del pianeta sono dolorosamente visibili a chiunque, per quanto povero, abbia accesso a un telefono. E visto che ormai nell’ Africa subsahariana sono più numerose le persone con un telefono che quelle che hanno accesso all’ acqua pulita, fra non molto significherà che quasi nessuno, nel nostro pianeta sempre più affollato, potrà sfuggire alla disuguaglianza”.

Le conseguenze di ciò sono sotto gli occhi di tutti: uomini, donne, bambini che per non morire vanno in cerca di una vita migliore, nella nostra sempre più alta torre d’ avorio, zeppa di isolamenti disperati, sopportati da sonni benzodiazepinici.

Come diceva Hawking LORO/NOI “ci troviamo in un momento pericoloso nella storia dello sviluppo dell’ umanità. Possediamo la tecnologia per distruggere il pianeta su cui viviamo, ma non abbiamo ancora sviluppato la capacità di fuggire da questo pianeta”.

Le torri d’ avorio, i sonni chimici, le barriere, i muri, interni ed esterni vanno eliminati.

INSIEME.

Sempre Hawking:” Possiamo riuscirci, io sono di un ottimismo sfrenato sulle sorti della mia specie: ma sarà necessario che le elites, da Londra ad Harvard, da Cambridge a Holliwood, imparino le lezioni di questo mondo che sta cambiando. Che imparino, soprattutto, una certa umiltà”.

Anche nelle nostre piccole alte torri, non farebbe male.

Roberta Minacci

 

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Confini

                                       Edoardo Tresoldi, Pueblo, Siena, 2015

Confini …

Vicinanza o lontananza,

                            prossimità o divisione …

Limiti…

            Visibili?

                         Invisibili?

Percepiti, ignorati, violati, penetrati,

                                                                 rigidi o labili, mobili …                                       

                 o statici,

permeabili,

                                 invalicabili, imposti, scelti, larghi, stretti …

Barriera o contatto?

Ogni confine è un rapporto, anche quando si erigono muri, perché i confini sono il contorno della nostra forma, il rivestimento del nostro essere, che ci mette in contatto con “l’esterno”…

Sono una domanda, che inesorabile continua ad interpellarci, anche quando la ignoriamo.

Una domanda aperta sulla propria identità e sull’identità dell’altro, individuo o popolo,

straniero,

cioè esterno, appunto,

fuori dai nostri confini;

… Perché ognuno di noi ci sta dentro, vive dentro a confini mutevoli e vivi ed è in contatto con i confini altrettanto mutevoli e vivi dell’altro: la propria pelle, i propri pensieri, la propria casa, la propria città, la propria cerchia, i propri riferimenti, il proprio paese…

Ognuno di noi si è sentito accarezzato o schiaffeggiato, si è reso invalicabile ed ha sofferto di fronte all’invalicabilità altrui, si è fatto labile e si è lasciato violare, è stato costretto dentro confini non suoi, ha lui stesso violato per necessità o distrazione o prepotenza – altra faccia della necessità – è stato permeabile ed è stato penetrato, fecondato … ognuno di noi ha conosciuto la propria e l’altrui rigidità…

Ma spesso è difficile mettersi nei panni dell’altro…

Gli esterni confinanti, gli stranieri, ci provocano con la loro domanda su chi siamo, su cosa vogliamo e su cosa vogliamo diventare; il loro movimento verso o “contro” di noi è come quello di una matita, che ripassa le parti del nostro limite cieco, rivelando una forma fino a quel momento ignorata. Ed è qualcosa di reciproco. Possiamo osteggiare indifferenza, paura e imporre barriere, ma siamo in contatto e la matita si muove…

Edoardo Tresoldi, una delle Gabbie

Credo, però, che venga sempre il momento nella nostra storia personale o collettiva – avviene sempre, la storia insegna – per uscire dai cortocircuiti delle negazioni, fonte di tante sofferenze, fonte di guerre e discriminazioni. Viene sempre il momento o l’occasione, per imparare a fronteggiare l’attrazione e la repulsione, il disorientamento e il desiderio di fuga, lo spaesamento fino allo scandalo, il fascino o l’incanto che proviamo di fronte all’esterno, al diverso, allo straniero, all’altro, che, volenti o meno, traccia la parte invisibile del nostro contorno; credo che ci sia sempre l’opportunità per rendere i nostri confini, totalmente o in parte, permeabili e penetrabili, lasciandoci fecondare dall’altro nella disponibilità di una reciproca trasformazione.

Bansky, striscia di Gaza

Nell’impazienza che oggi ci caratterizza, nella dimensione del tutto e subito, la sfida più grande, forse, è il rispetto dei tempi – per lo più lunghi – nostri e altrui, necessari per riconoscere e riconoscersi.

Non possono esserci risposte immediate, ma solo una promessa di compimento, attraverso la costruzione intenzionale, lenta, continua e creativa, feconda e arresa di una storia che non è più “la mia” o “la tua”, ma “la nostra”, all’interno di confini permeabili e mobili.

Debora Corridori

 

 

Invisibili

Esco di casa, sono le sei del pomeriggio, direzione Grosseto.
Attraverso il mio paese sicuro e invisibile, mascherato da FIAT punto, color carta zucchero. Cintura allacciata e fari accesi, anche di giorno. Unico neo il ciotolio della marmitta dissaldata, che mi rende riconoscibile.
Ma è un attimo, un fastidio momentaneo che i miei compaesani devono sostenere per qualche istante, ma non c’è alternativa dopotutto.
Tutti sono indaffarati a curate la propria invisibilità, ognuno a modo suo.
Ognuno cura l’invisibilità esattamente con l’organo preposto alla scoperta: gli occhi, lo sguardo. È proprio lo sguardo che inquadra, scruta, incasella, e che, alla fine, nasconde.
Una volta stabilito chi o cosa sei, vieni riposto in un luogo imperscrutabile, e li sarai destinato a dimorare, per sempre.
Siamo spesso come dei pianeti che si avvitano su orbite che non si incontreranno mai.
Cellule impazzite che, per paura di un contagio, si evitano, facendo sparire dalla vista ciò che temono.
È così che, decine di nord africani, fuggiti dai loro paesi di origine, e approdati non si sa come nel mio paesino maremmano, si muovono completamente ignorati lungo la stradine limitrofe.
Un gruppetto arriva da sud del paese, un altro da nord e, a piedi o in bici, raggiungono il centro, e li poi, non si sa dove vanno, ne cosa fanno.
C’è chi li vede come formiche o mosche, chi vede solo il pericolo “si cammina a sinistra” e che cavolo. Ma poi si archivia, si smette di vedere, l’occhio fa sparire.
Da dove vengono, che storie raccontano, chi hanno lasciato, se tra di loro si conoscevano già prima di arrivare: a nessuno importa.
Noi sappiamo già tutto di loro, ce lo hanno raccontato in tv.
Ma stasera alle sei e cinque, appena uscito dal mio paesello, procedendo lentamente verso Grosseto, inquadro da lontano un gruppo di tre nordafricani.
Non so perché l’ho fatto, sinceramente, ma proprio nel momento in cui stavo arrivando alla loro altezza, pochi metri prima di incrociarli, alzo la mano nel segno del saluto e la faccio oscillare ripetutamente e a lungo da destra a sinistra.
I tre, all’unisono, con una prontezza che neanche i Berliner Philharmoniker all’epoca in cui erano diretti da Abbado, alzano la mano, tutti e tre la destra, per rispondere al mio saluto.
Un gesto che ha scoperchiato un mondo che stava li, proprio sotto Gli occhi di tutti.
Un mondo che, a differenza del nostro, di noi, che con lo sguardo siamo abituati quotidianamente a nascondere e occultare, ci vede, ci osserva, e contemporaneamente ha bisogno di essere visto.
A differenza di noi, seduti nelle nostre macchinine chiuse e climatizzate, che con lo sguardo escludiamo, ignoriamo, loro ci guardano, e a volte, probabilmente, per delicatezza, evitano di farci sapere cosa pensano di noi.

Spazi interni

“…per conoscere un altro è necessario pensarlo dentro di se, riservare per lui uno spazio nella nostra mente. Una relazione non si sostanzia del semplice stare vicino fisicamente, ma della capacità di tenersi dentro l’un l’altro; così come la comunicazione affettiva tra due persone non è semplice trasmissione di contenuti o informazioni, ma dialogo tra interiorità, armonizzazione di mondi interni. Conoscere l’altro, riservargli uno spazio nella propria mente, è possibile solo identificandosi, seppure transitoriamente, con lui. È grazie all’empatia, cioè alla capacita di provare i sentimenti dell’altro attraverso il ricorso all’autoanalisi e la ricerca, nella propria esperienza, di qualcosa di analogo a ciò che l’interlocutore sta in quel momento vivendo, che è possibile comprenderlo…”

Maria Antonella Galanti

Da “Affetti ed empatia nella relazione educativa”

Testate

Mi sembra giusto, dopo aver realizzato la splendida testata (così si chiama) che si può vedere, sfavillante, in alto nel sito, fare una leggera/minuscola riflessione. (Dovrò pensare ai TAG per questo scrittino). Eh si, perché la testata, una volta era – e lo è tuttora – (solo che adesso rispetto alla stessa c’è una disattenzione che considero puro snobismo culturale) quella parte del letto dove, per forza di cose, si va ad indirizzare la zucca, la chiorba, la crapa, pelata e non, nell’atto di coricarsi. Grande l’attenzione per la testata, ce n’erano in ferro battuto, stile postmoderno, a libreria, quelle con la radio tipiche degli anni 70 (che poi non funzionava mai) e altre a carattere esclusivamente ornamentale – pittorico, alcuni invece mettevano il Che. Comunque la si metta è la parte alta e volitiva del letto; quindi adesso, questo sito neonato, con la sua bella testata, mi fa pensare ad un letto, a molte, molte piazze, svariate piazze. Un bel letto multipiazza dove c’è posto per tanti, per tutti, un luogo infinito, multiforme. E poi, dico, nel letto si dorme, e si sogna, quindi abbiamo a che fare con un sito onirico, un sitonirico, bah, lo scrivo tuttattacato, che rende meglio. Nella prossima puntata scriverò delle “testate”, sempre cose che hanno a che fare con la zucca, la chiorba, la crapa, pelata e non, ma stavolta l’attenzione sarà rivolta ai muri verso i quali, le suddette, sono dirette, e il relativo lavoro per sbrogliare i fili attorcignati della vita nei quali i piedi inciamparono, un dì.